Luigi Starace
Manfredonia – E’ una bella giornata di sole autunnale e Siponto in questo periodo, in una anonima domenica di fine ottobre, appare ancora più radiosa. Raggiungiamo Fernando Muraca nel suo albergo; ci accoglie con un sorriso, manipolando fra le mani uno strano aggeggio color piombo: “E’ un antistress che mi ha regalato mio figlio” commenta. Di lì a poco avrei notato che non ne avrebbe fatto largo uso, perlomeno in nostra presenza: “buon segno” penso fra me e me, vuol dire che non lo stiamo annoiando.
Partiamo dal film, perché La Terra dei Santi, perché Manfredonia? “Sono cinque anni che lavoro a questo film, ho iniziato con la collaborazione di Monica Zapelli, sceneggiatrice de “I cento passi”. La trama vede protagoniste tre donne, un giudice, la moglie di un boss e sua sorella. Il film che parla di ‘ndrangheta non vuole raccontare tanto i traffici e le gesta di questa organizzazione ma vuole dare una visione antropologica del fenomeno: perché una donna meridionale che darebbe la vita per il proprio figlio, decide ad un certo punto di “donarlo” all’organizzazione mafiosa? Il film doveva essere girato in Calabria ma lì abbiamo trovato le porte chiuse, qui in Puglia invece avete una bella realtà, l’Apulia Film Commission accoglie e sponsorizza molto volentieri progetti di questo genere, così abbiamo trovato terreno fertile per la realizzazione del progetto. La scelta di Manfredonia è stata dettata da una ragione molto semplice: morfologicamente la vostra città assomiglia molto a Vibo Valentia, dove sono nato. Manfredonia con il suo paesaggio, il mare, il promontorio garganico mi ricorda molto i luoghi dove ho trascorso la mia infanzia e dove è ambientato il film”.
A parte le similitudini morfologiche, cosa accomuna noi manfredoniani agli abitanti di Vibo Valentia, dal punto di vista antropologico? “Tutte le popolazioni meridionali sono accomunate da una grande sofferenza, quella di vivere in territori che sono sottoposti ad una grande violenza che si chiama mafia, che impedisce loro di esercitare appieno la propria libertà. Nelle nostre città, non siamo pari, c’è chi ha più libertà di intraprendere e c’è chi invece deve rendere conto ad altri per mettere a frutto i propri talenti. In Calabria, Sicilia, Campania, Puglia le mafie hanno il loro quartier generale che poi diffonde i suoi tentacoli in tutta Europa. Il sistema mafioso si sostituisce allo Stato, garantendo ai propri affilati sicurezza e divenendo, in un certo senso, un sistema di collocamento a tal punto che, come dicevo, anche le donne sono portate in modo acritico ad accettarne le regole immolando i propri figli”.
Parliamo di Fernando Muraca, quando nasce la sua vocazione? “La mia storia di professionista del cinema è legata alle mie scelte di vita. Non ho mai avuto questo sogno da bambino, è capitato. Ho imparato fin da piccolo a mettere a frutto i miei talenti, sono convinto che se compi questo esercizio progettualmente alla fine questo porta alla piena realizzazione dei propri sogni. Stavo girando il mio primo cortometraggio, ad un certo punto dovevo riprendere il volto della protagonista, mentre giravo mi sono reso conto che non mi vedevo più, ero completamente immerso nell’attimo presente. Questo ha provocato in me una gioia immensa, di piena realizzazione, così ho pensato: se questa cosa mi rende così felice vuol dire che questa è la mia vocazione”.
C’è stato qualche momento in particolare nella sua vita durante il quale avrebbe preferito mollare tutto e fare un passo indietro? “Il mondo del cinema, si sa, ha delle dinamiche molto complesse, è dura, e a volte i tempi non sono maturi per accogliere e apprezzare il tuo lavoro. Sì, ho attraversato un momento di sofferenza molto particolare, è difficile capire cosa fare quando finalmente sei riuscito a realizzare il sogno della tua vita (diventare regista ndr) e sei convinto di aver realizzato un buon prodotto che però viene rifiutato in tutti i festival in cui lo presenti. E’ quello che è capitato a me; non riuscivo a capire perché il mio film veniva rifiutato ovunque lo presentassi anche se si trattava di un buon lavoro. In quel momento di crisi sono stato spinto ad andare avanti, mi ha aiutato molto la fede, il mio rapporto epistolare con Chiara Lubich (fondatrice e leader del Movimento dei Focolari), conclusione se non avessi perseverato e avessi abbandonato tutto, ora non sarei qui. Cinque anni più tardi, lo stesso film ha riscosso un successo non indifferente. Semplicemente quando lo avevo presentato la prima volta la critica e il pubblico non erano pronti ad accoglierlo. Nel nostro lavoro a volte accade di anticipare i tempi, bisogna solo saper aspettare”.
So che lei ha una grande fede, come si può riuscire nel mondo di oggi, a trasmettere il volto di Dio attraverso un film? “L’uomo è un essere dotato di interiorità, a questa cosa ognuno di noi dà un nome, c’è chi la riferisce a Dio, chi ad un’altra entità. Io ho ricevuto una formazione cristiana, sono nato in Calabria e qui l’essere cristiano è qualcosa di naturale. Quindi il fatto di essere cristiano è prima di tutto legato a questo. Mi identifico nei valori della famiglia, dell’amicizia, dell’accoglienza che secondo me sono alla base di ogni comunità sociale e questo non può essere ininfluente nelle mie opere. Cerco di immettere nelle mie opere un senso spirituale, qualcosa che rimandi a qualcos’altro che non vediamo e che non si può descrivere. Quando racconto le storie, cerco l’uomo e Gesù è l’uomo. Dio è nelle persone che incontro, nei miei collaboratori, nei miei personaggi. Essere credente significa provare un amore sconfinato per l’uomo”.
Qual è il film che ha girato che porta sempre nel cuore, il figlio prediletto? “Il primo e l’ultimo, questo che sto girando adesso. Nel mio primo cortometraggio “Ti porto dentro”, ho rappresentato tutti i semi di una poetica che poi avrei sviluppato nel tempo in tutti i miei lavori. Ti porto dentro racconta la storia della buona morte: che cosa succede ad un uomo quando giunge alla fine della sua vita e deve abbandonare questa terra? Ero andato al funerale di una persona, che mi colpì profondamente; quel momento sembrava una festa, si viveva sì il dolore del distacco ma al contempo quel giorno ci diceva di un uomo che passando nel mondo, aveva lasciato cose meravigliose. Ispirandomi a questo momento ho scritto una storia d’amore che doveva realizzarsi proprio nel momento in cui la vita finisce”.
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