Parlare di Cinema Arti Visive e Culture Indipendenti

2020

Alessandro Del Gaudio lo conosco dai tempi de Il candore dei ciliegi, sarà stato il 2000, lui aveva 26 anni, io 40. Siamo invecchiati entrambi in questo mondo letterario che fagocita sogni e ambizioni, che redige scale di valore inattendibili e che ti fa smarrire la cosa più importante: la voglia di scrivere. Per fortuna Del Gaudio l’ha mantenuta, ma resta un peccato che un romanzo originale come Rintocchi di clessidra esca come autoproduzione, quando le librerie sono ricolme di spazzatura su carta, illeggibile, promossa a piene mani dal sistema mediatico. 

Discorsi vecchi, che facevo vent’anni fa, che sono costretto a ripetere, visto che la situazione è persino peggiorata dai tempi di Quasi quasi faccio anch’io un corso di scrittura (Stampa Alternativa). Rintocchi di clessidra è un romanzo costruito su racconti - per la precisione otto e un epilogo - ma il filo conduttore è la narrazione di raccordo composta da Nivolet, un narratore fantastico che scrive storie da un palazzo al centro dei mondi, racconti che messi su carta subito dopo vengono scordati.

 

Le storie del narratore protagonista sono importanti, scorrono come rintocchi di clessidra, sono le ultime storie da scrivere che dovranno risvegliare Esterel da un sonno eterno. Il dato di partenza è fantastico, così come sono soprannaturali molte ambientazioni, dotate di una doppia chiave interpretativa che passa dal realistico al soprannaturale. In ogni caso il lettore di fantasy troverà pane per i suoi denti, tra torri siderali, spazi interstellari, maghi, giocattoli soprannaturali, penne prese in prestito ad ali di corvi per scrivere storie prive di lieto fine, capitani coraggiosi e ciurme di surreali pirati. 


Lo stile di Del Gaudio è maturo e consapevole, ben strutturati i dialoghi, descrizioni come morbide pennellate, suspense narrativa dosata a dovere, costruzione letteraria che risente di letture importanti, da Borges a Calvino. Rintocchi di clessidra è la dimostrazione di come si possa fare letteratura partendo dal genere, senza tradire il rispetto per il lettore che attende una storia avvincente. Rintocchi di clessidra ne contiene nove.

Il tuo nome è un’altra opera interessante di Del Gaudio, edita da Sereture Edizioni di Varese, nel 2015, che ho avuto modo di apprezzare. Qui siamo nel territorio della narrativa sentimentale, con l’originale trovata di alternare un capitolo in prosa a una poesia d’amore. Un romanzo struggente e delicato che racconta una storia d’amore incompreso, un cuore che batte per una donna che di cognome fa follia e che resta solo un fantasma della notte, di un’altra notte in cui poterla sognare.

Provateli entrambi. Non ve ne pentirete.

Gordiano Lupi


Per acquistare Rintocchi di clessidra:

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Matsuteia ed E.T.A. Egeskov
Volevo essere un supereroe della Marvel – vol. 1



Un agile volumetto che non pretende di essere esaustivo, solo di raccogliere una serie di curiosità sui supereroi degli universi Marvel - che sono davvero tanti (quasi 1000!) tra buoni e cattivi (persino più affascinanti) -, anche perché ci sono già molti saggi specifici che contengono di tutto sulla Casa delle Idee. 


Sono un fan della Marvel dal 1970, dal giorno in cui fui affascinato in edicola da L’Uomo Ragno contro Lizard, Editoriale Corno, subito dopo essere stato irretito da Mentre la città dorme, protagonista il Devil dal costume giallo e nero di Stan Lee e Wallace Wood. Confesso che leggo Marvel ancora oggi, certo solo i personaggi classici, cose nuove come Venom e Deadpool (che i ragazzi amano) un po’ mi disturbano, riesco ad apprezzare poco persino un grande disegnatore come Todd Mc Farlaine, cresciuto come sono a Ditko e Romita, per me il massimo di modernità restano Kane, Kirby e Buscema. Non solo, mi capita di vivere come un tradimento certe trasposizioni cinematografiche di Spider Man, soprattutto le ultime, mentre ho apprezzato molto il cartone animato di Sara Pichelli con il nuovo Uomo Ragno di colore (Miles Morales). Detto questo veniamo al libro, un piccolo e prezioso manuale che in certi casi dice cose che un appassionato conosce, ma in altri fa compiere vere e proprie scoperte al vecchio lettore. 


Per esempio mi è servito a capire che il nuovo Nick Fury cinematografico è il figlio di quello che leggevo negli anni Settanta. Poi fa piacere rileggere anche quel che sappiamo, trovarlo sistemato in maniera ordinata, come la storia su Spider Man che l’editore Martin Goodman proprio non voleva pubblicare: Chi vuoi che si appassioni alle vicende di un uomo con i poteri di un ragno? Per fortuna ebbe ragione la testardaggine di Stan Lee. 


L’Uomo Ragno conta versioni da romanzo grafico strepitose, vera letteratura a fumetti, oltre a una serie regolare che - tra alti e bassi - resiste in edicola dal 1962. Gli autori del libro raccontano lo sbarco Marvel in Italia, al quale ho assistito in prima persona, negli anni Settanta, prima su Linus (grande Oreste Del Buono, quasi mio compaesano!), poi su Sergente Fury (possiedo molti numeri), infine con la mitica Corno. I due autori non dimenticano le vicende moderne con Star Comics e Play Press, per poi parlare di Panini unica depositaria del verbo Marvel. Il libro analizza la continuity - fenomeno che rende diversa e unica la Marvel -, i cross-over, il primo eroe omosessuale, gli autori che hanno fatto la storia, i problemi con il Comics Code per la troppa attualità dei racconti (droga, razzismo, Vietnam …). 


Una sezione finale è riservata agli attori dei film che hanno impersonato gli eroi Marvel, importante per rendere il tutto più attuale e appetibile per i fan contemporanei. Per quel che mi riguarda resto legato al passato, al profumo di quella carta colorata della Corno, che oggi ritrovo - come una madeleine proustiana - nella collezione da edicola Super Eroi Classic, edita dal Gruppo  Rizzoli in collaborazione con Panini. Per chi ancora non conosce la Marvel questo piccolo libro è una vera e proprio guida virgiliana in un paradiso fantastico che noi ragazzini nati negli anni Sessanta abbiamo vissuto desiderando tutti trasformarci in Super Eroi Marvel!  


Gordiano Lupi


Per acquistare il libro: https://www.amazon.it/dp/B0865BNNV5/


Il dottor Stranamore scava nell’età dell’ansia del cinema americano, quando la paura del nemico comunista produsse una serie di film con al centro l’incubo della bomba atomica. Alcune pellicole della prima metà degli anni Sessanta sconvolsero le coscienze mostrando come l’avvenire del pianeta fosse tra i pulsanti e le esplosioni di una tecnologia dal complesso sistema di controllo, dietro il furore delle ideologie. Kubrick rappresenta tutto questo senza pontificare o filosofeggiare, ma audacemente mettendo in scena l’ultimo capitolo della nostra commedia umana: un’immensa, sardonica, irriverente e tragica risata sull’assurdità di una razza così indaffarata a realizzare, con accanimento spesso geniale, la propria distruzione.

Tutto su un film potrebbe essere il motto di questa nuova collana di Edizioni Il Foglio, dedicata al grande cinema che ha segnato non solo la storia di un’arte, ma anche stagioni della nostra esistenza, visioni personali e collettive depositate in una memoria che ritorna per immagini ed emozioni. Sono libri per approfondire singoli film, per meglio conoscere gli aspetti segreti e nascosti di un’opera, ma anche atti d’amore per il cinema, il piacere di essere messi a parte di una passione, condividerla. Penetrare intimamente nel corpo di un film, fino quasi a provare l’illusione di riviverne la creazione, la visione, quel che accade dopo. Sentire l’effetto cinema attraverso la lettura, restare nel suo universo ed essere curiosi delle connessioni con gli altri linguaggi. E allora non si poteva cominciare meglio questa collana che con Il dottor Stranamore, il più esplosivo film di uno dei più matericamente visionari registi della storia del cinema: Stanley Kubrick. Un’irriverente rappresentazione della guerra fredda, quando l’avvenire del pianeta sembrava tra le mani di politici e militari sempre sull’orlo di una terza guerra mondiale, tra bombe atomiche, pulsanti e valigette di una tecnologia dal complesso sistema di controllo dietro il furore delle ideologie. 


Kubrick racconta tutto questo come se mettesse in scena l’ultimo capitolo della nostra commedia umana: un’immensa, sardonica, tragica risata sull’assurdità di una razza così incredibilmente indaffarata a realizzare, con accanimento spesso geniale, la propria distruzione. (Davide Magnisi)

 

 

Davide Magnisi, docente e critico cinematografico, ha collaborato con quotidiani, riviste, siti internet e rassegne cinematografiche. Ha pubblicato un volume su Stanley Kubrick (Gli orizzonti del cinema di Stanley Kubrick, 2003), due su Fernando di Leo (Di Leo calibro 9, 2017; Il cinema di Fernando di Leo, 2017) uno su Sam Mendes (Sam Mendes. Da Shakespeare a Bond, 2018) e uno su Ruggero Deodato (Cannibal Ballad, 2019), oltre ad aver preso parte a numerosi libri collettanei (Cineasti di Puglia, 2006-2007; 10 – Il cinema di Sergio Rubini, 2011; Riccardo Cucciolla, 2012; Il cinema di Domenico Paolella, 2014). Membro del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani e della Fipresci, è stato più volte giurato in festival del cinema internazionali.


Autore: Davide Magnisi

Titolo: Il dottor Stranamore, ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba

Pagine: 126

Formato 15x21

Prezzo: 12 euro

Collana “I film del foglio”



fareastff


La prima piattaforma italiana di cinema asiatico, FAREASTREAM, compie una settimana. E gli abbonati non hanno certo perso tempo: centinaia di clic, centinaia di visualizzazioni, e una TOP FIVE che, tra blockbuster e grandi classici, rispecchia perfettamente lo spirito del progetto!   


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1°- A TAXI DRIVER di Jang Hun

La mente corre a De Niro e Scorsese, certo, ma questa non è la New York degli anni ‘70: è la Seul degli anni ‘80. Jang Hun ci fa salire su un taxi e ci (ri)porta nel buio di Gwangju, dove sta per esplodere la grande rivolta popolare contro la dittatura di Chun Doo-hwan. Dieci giorni di lotta, dieci giorni di feroce repressione. Il 18 maggio 1980 rappresenta ancora una ferita aperta, nel cuore della Corea, e i DODICI MILIONI DI SPETTATORI che hanno applaudito A TAXI DRIVER lo dimostrano. Blockbuster o inno civile? Un inno civile che parla il linguaggio del blockbuster, affidandosi (tra lacrime, risate, azione) al gigantesco SONG KANG-HO: il pupillo di Bong Joon-ho da MEMORIE DI UN ASSASSINO a PARASITE.

Notorious, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare il cinema:  CULT - Viaggio a Tokyo di Yasujirō Ozu, film drammatico che parla di  distanze e di rapporti familiari che si

2°- VIAGGIO A TOKYO di Ozu Yasujiro

Per fare visita ai figli, due anziani genitori si spostano nella capitale dalla piccola città giapponese di Onomichi. Nonostante le dichiarazioni d’affetto, però, il primogenito Koichi e la sorella Shige non hanno tempo (né troppa voglia) di occuparsi di loro. Soltanto l’ex nuora Noriko, moglie di un terzo figlio disperso in guerra, li tratterà con dolcezza sincera… Incoronato MIGLIOR FILM DELLA STORIA da 350 registi di tutto il mondo, VIAGGIO A TOKYO è l’icona stessa del CINEMA GENTILE del sommo maestro OZU. Una storia semplice che diventa parabola sulle stagioni della vita. Una cronaca familiare venata d’amarezza, ed estremamente raffinata sul piano visivo, che resta per sempre negli occhi e nell’anima. La versione è quella restaurata dalla Shochiku.  


Ultimo film visto? - pagina 424

3°- CASTAWAY ON THE MOON di Lee Hae-jun

“E ora qualcosa di completamente diverso”: CASTAWAY ON THE MOON, l’ormai leggendario ASSO PIGLIATUTTO del FEFF12 (si portò a casa l’Audience Award, con una media-voto vertiginosa, e anche il bacio accademico degli accreditati Black Dragon)! Una commedia davvero unica nel suo genere, buffa e poetica, dolce e surreale, che i FAREASTERS della prima ora saranno sicuramente felici di riapplaudire e che i NEWCOMERS dovranno TASSATIVAMENTE recuperare! Un'occhiata alla trama? È la storia di due bizzarre solitudini che s’incontrano: quella dell’impassibile signor Kim, suicida fallito e moderno Robinson Crusoe su una delle isolette selvagge del fiume Han che attraversa la città di Seul, e quella della signorina Kim, una bella hikikomori in eremitaggio nella propria stanza e connessa al mondo attraverso il web…


Confessions - di Tetsuya Nakashima (2010) | JAMovie

4°- CONFESSIONS di Nakashima Tetsuya

Premiato al FEFF nel 2011 e attraversato da una colonna sonora che spazia da Bach a “Last Flowers” dei Radiohead, ecco il SUPER CULT giapponese di cui si è perdutamente innamorato MICHAEL MANN (“Un capolavoro assoluto”)! Horror? Thriller? Revenge movie? Dramma psicologico? Le catalogazioni sono tutte valide e tutte superflue, perché CONFESSIONS travalica i generi facendosi pura narrazione: il racconto, struggente e glaciale, di un omicidio e di una vendetta che diventa il racconto, feroce e spiazzante, di troppe vite bruciate... Nakashima Tetsuya, padre talentuoso di KAMIKAZE GIRLS e MEMORIES OF MATSUKO, firma un’opera d’arte che riempie gli occhi di grande cinema e non fa prigionieri.


AsianWorld.it on Twitter: "#subs "Beasts Clawing at Straws" di Kim Yong-hoon,  Corea del Sud, 2020, Commedia nera. #sottotitoli Link:  https://t.co/H1KdLadrfp… https://t.co/hKEiLarHfW"


5°- BEASTS CLAWLING AT STRAWS di Kim Yong-hoon

Quattro disperati, una dark lady sbucata dall’inferno (o dagli immediati dintorni), una borsa traboccante di soldi e un dosaggio colossale di KARMA per tutti: ecco gli ingranaggi che muovono, con implacabile e beffarda precisione, questo bellissimo (nerissimo) PULP. Un divertente minuetto di sangue e di coltelli, di umorismo e di cinismo, di flashback e di flashforward, dove la smania di denaro porta clamorosamente sfiga e dove l’unica regola è NON FIDARSI MAI DI NESSUNO. L’esordiente Kim Yong-hoon dirige con mano felice il suo stesso adattamento del romanzo d’origine e ci regala, oltre al film-rivelazione dell’ultimo FEFF  (menzione speciale della Giuria dei GELSI BIANCHI), una folgorante JEON DO-YEON: mai così cattiva, mai così irresistibile!




L'ultima fatica letteraria dello storico Michele Eugenio Di Carlo prima fra le novità' e nono in classifica Bestseller in Storia moderna e contemporanea dal XVIII al XX secolo.

L'immagine può contenere: spazio al chiuso, il seguente testo "Michele Eugenio Di Carlo La fine del Regno delle Due Sicilie con prefazione di Pino Aprile SUD DA BORBONE A BRIGANTE"

Dalla prefazione di Pino Aprile:

Questo è un libro importante e molto ben fatto. Il suo valore consiste nella chiarezza dell’esposizione, nella puntualità (pignoleria, direi) del richiamo alle fonti e nell’intelligenza della scelta dei brani da confrontare e che riescono a riassumere molto. Insomma, sarebbe da segnalare e leggere solo perché un buon libro lo merita.

Invece, il maggior pregio di questo volume (senza nulla togliere all’autore) è in una domanda: perché un lavoro serio come questo non lo abbiamo da tempo immemorabile a cura di titolari di cattedra di storia? Perché il raffronto con quel che scrivevano autori “dalla parte dei vinti” è stato (salvo poche, tardive e lodevoli eccezioni) scartato a priori? Perché la versione degli sconfitti, da Giacinto de’ Sivo (“Storia delle Due Sicilie”), a Raffaele De Cesare (“La fine di un Regno”) è stata irrisa, ritenuta inattendibile per definizione, perché portatrice del presunto risentimento dei vinti che potrebbe deformare i fatti.

Così, la “buona storia” è la versione dei vincitori, che narra come necessaria per un alto fine una invasione senza dichiarazione di guerra, tace di paesi rasi al suolo, di rappresaglie con migliaia di morti, centinaia di migliaia di incarcerati e deportati senza accusa, processo e condanna. Quando chi compie queste cose non vince, ma perde, si parla di crimini di guerra. I fatti e i modi sono sempre quelli nel percorso dell’umanità, cambia il modo di raccontarli: un passo avanti verso una più alta civiltà, nella versione dei vincitori, un delitto in quella dei vinti.

I Vicerè

Così, la storia ufficiale finisce per giustificare le cose come sono andate, perché così “dovevano” andare e il racconto attribuisce ai protagonisti un disegno chiaro a loro e, a posteriori, a tutti (salvo botte di sincerità quale quella di Oliver Cromwell, che quando gli chiesero come avesse costruito le basi della potenza britannica, rispose, più o meno, che nessuno va così lontano come chi non sa dove sta andando). Mentre il racconto dei vinti avviene attraverso l’arte: la letteratura (“I viceré” di Federico De Roberto, “La conquista del Sud” di Carlo Alianello, “Il gattopardo” di Tomasi di Lampedusa…), la musica (basterebbe “Brigante se more” di Eugenio Bennato e Carlo D’Angiò), la pittura (si pensi a Goya, a Picasso con Guernica…).


Di Carlo riprende la voce inascoltata dei vinti (e molti ce ne sarebbero da aggiungere, dal duca di Maddaloni, unitarista deluso, costretto a scrivere sotto lo pseudonimo di Ausonio Vero, all’anonimo autore dell’imperdibile “Pro domo mea”, che io stesso scoprii essere Vincenzo degli Uberti, grande intellettuale e ingegnere unitarista ferito e ridotto al silenzio) e analizza le cose che raccontano. Lo fa affiancando alle loro opere quelle degli storici ufficiali, come detto. Con il risultato, senza alcuna forzatura, che i vinti dissero la verità. Si può discutere del dettaglio, come sempre, ma meritavano ascolto e considerazione.

Per più di qualcuno non è una sorpresa. Basterebbe ricordare quanto pubblicato, con dovizia di documentazione e indubitabile adesione ai principi risorgimentali, dal professor Umberto Levra (docente di storia risorgimentale all’Università di Torino; presidente dell’associazione degli storici risorgimentali; presidente del Museo del Risorgimento italiano) sul fine della Società di Storia Patria voluta dai Savoia nel 1830 e governata in modo ferreo, almeno sino al 1920, da due-tre famiglie: riscrivere di volta in volta la storia per adeguarla alle politiche sabaude; distruggere i documenti compromettenti, rendere inaccessibili altri. E ancor oggi, stando a quanto affermato da Alessandro Barbero sul dovere degli storici (e non solo), i sabaudisti (questo il nome in cui si riconoscono quei custodi dei fatti nostri) devono mirare a formare uno spirito nazionale più che dirci cosa accadde davvero. Tanto che sia Levra che il colonnello Cesare Cesari, direttore degli Archivi militari, autore di una importante storia del Brigantaggio pubblicata un secolo fa, scrivono che i documenti così “patriotticamente” distrutti sono talmente tanti, che non si potrà mai più ricostruire come andarono veramente le cose. Cesari specifica che il danno maggiore è proprio la sparizione di testimonianze e carte parlanti dei vinti.

Eppure, quello che fu prodotto e divulgato in quegli anni bui, da contemporanei (pur fra tante difficoltà: persecuzioni, processi, esilio, sparizione di opere pronte alla stampa, distruzione di tipografie), è stato accantonato.

E non lo meritava.

Alcuni storici di professione, da Roberto Martucci (“L’invenzione dell’unità d’Italia”) a Eugenio Di Rienzo (“Il Regno delle Due Sicilie e le potenze europee”, pur con un successivo rifacimento al ribasso, poco comprensibile), a John A. Davis (“Napoli e Napoleone. L’Italia meridionale nelle rivoluzioni europee 1780-1860”) ne avevano già dato atto; e tracce possono trovarsi in tanti altri, storici e no, da Paolo Mieli a Carlo Azeglio Ciampi. Ma l’opera di Michele Eugenio Di Carlo è sistematica, onestamente distaccata, senza timori di “sembrare” squilibrata, quindi preconcetta, in un senso o nell’altro.

Un lavoro che sarà di aiuto a quanti, senza pregiudizi, o persino avendone, vorranno guardare con la distanza del tempo quegli avvenimenti. Sarebbe ora, perché fu allora, mentre si fingeva di unificarlo, che il Paese venne diviso fra un Nord acchiappatutto e un Sud ridotto a colonia, con la nascita, a mano armata, della Questione meridionale.

Se lo si volesse unire, bisognerebbe ripartire da dove il filo, anche della verità, fu spezzato.

Il libro di Di Carlo è molto utile.

 

P.S.: il testo è immediatamente disponibile sia in formato cartaceo che e-book al seguente link:

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I primati del Regno delle Due Sicilie che resero Napoli una vera capitale

 

La letteratura calcistica (come il cinema) non ha mai avuto grande fortuna in Italia, nonostante scrittori come Arpino abbiano celebrato i mondiali del 1974 con Azzurro tenebra e registi come Pupi Avati abbiano girato Ultimo minuto. In ogni caso escono libri e film dedicati al calcio, che continuo a leggere e vedere, fedele a un’antica passione che mi tiene avvinto alla palla di cuoio almeno dal 1965, in pratica da quando ho l’età della ragione. Tra le ultime belle cose lette e viste posso citare il libro di racconti Undici metri di Vitali e Targa, il film La partita di Francesco Carnesecchi, ma anche l’ennesima visione de L’allenatore nel pallone di Sergio Martino e de I due maghi del pallone con Franco e Ciccio. Soffermiamoci su Undici metri - Storie di rigore, che gode della bella prefazione di Darwin Pastorin (altro grande scrittore di calcio) e analizza con lo strumento narrativo il ruolo del penalty nella storia del calcio. Vitali e Targa partono dal primo tiro dagli undici metri per giungere ai giorni nostri, prendono in considerazione il trionfo di Berlino, i tiri mondiali di Baresi, Baggio e Di Biagio, il cucchiaio di Totti, le imprese di Zico, Platini, Falcao e Gullit. Sessanta racconti dove trovano spazio persino due bidoni come Caraballo e Toffoli, con i loro errori macroscopici, accanto alle autoreti del mitico Comunardo Niccolai. Sessanta racconti di passione calcistica, una vera manna per gli appassionati, perché forse non tutti sanno che il calcio di rigore è nato nel 1890, sette anni prima che nascesse la Juventus, e che prima si giocava senza il penalty, fino a quando un portiere irlandese non propose l’innovazione alla federazione britannica. Un’invenzione che non portò fortuna al povero Mc Crum (questo il cognome del vecchio carneade), morto dimenticato da tutti, tradito dalla moglie, alcolizzato e pieno di debiti. Un’altra curiosità la leggiamo sul miglior rigorista di sempre, un tal Giampiero Testa (nato a Magenta nel 1938), che ha giocato soltanto in serie C ma non sbagliava mai un penalty, perché diceva: “Per tirare bene un calcio di rigore si deve avere la testa libera!”. E visto il cognome che portava ci riusciva. Gli autori narrano la storia di Antonin Panenka, che ha giocato fino a 45 anni nelle serie minori, ma viene ricordato per il rigore decisivo del 1976 contro la Germania, primo penalty a decidere una competizione importante. Si rammenta il cucchiaio di Totti del 2000 contro l’Olanda, ma anche il rigore assurdo di Platini in uno stadio pieno di morti, in Belgio, contro il Liverpool. Benito Lorenzi, invece, non tutti lo conosceranno, era Toscano come me e lo chiamavano Veleno, quando nel 1957 con un rigore al limone (leggete il libro per capire!) fece fuori l’odiato Milan indossando la maglia nerazzurra. Un libro imperdibile per tutti gli appassionati di calcio.

Cristian Vitali - Maurizio Targa
Undici metri - Storie di rigore

Sensoinverso Edizioni  - Euro 17 – pag. 290

Gordiano Lupi


Scrubs, il ritorno: la proposta di Zach Braff e Donald Faison Humanities e TV 


Marc Greene è a casa, la moglie gli chiede della sua giornata in ospedale, solo le cose belle però. Marc accenna alla paziente terminale assistita poche ore prima, ma la moglie ha già cambiato discorso e parla di sé. Divorzieranno dopo un paio di puntate.

John Dorian è al suo primo giorno di lavoro in ospedale. Naturalmente qualcuno gli vomita addosso e un'infermiera lo rimprovera.  L'ultimo baluardo di autostima cade quando il suo tutor comincia a chiamarlo con sopranomi, subito adottati dallo staff.  John per fortuna ha un'immaginazione fuori dal comune...

Di là per una incredibile serie di circostanze una bambina è gravemente ammalata ed è senza diagnosi. Ma non è ciò a gettare nel panico Gregory House, quanto l'aver finito le sue medicine. Naturalmente le due cose sono collegate, su un piano sconosciuto a familiari e dottori e la soluzione si presenterà prima del fondo del nuovo tubetto di pillole.

Se nessuno parla di parcella, siamo certi che non stiamo assistendo a qualcosa di reale: è fiction.

I telefilm hanno occupato, a ragione, il vuoto lasciato dai romanzi d'appendice, introducendo nuovi stilemi nell'immaginario collettivo ed hanno ereditato, oggi, la mitopoiesi peculiare del cinema. Le serie televisive godono di una doppia vita: quella "on air", quando trasmesse, e quella, ormai dominante, dell'home video. C'è una differenza tempistica di consumo a netto vantaggio del secondo canale di fruizione. Gli episodi, una volta posseduti in copia, sono visti, o forse è meglio dire autosomministrati, in dosi anche massicce.

L'home video ha negli ultimi vent'anni cambiato supporti (vhs, cd, dvd, streaming) rendendo possibile la diffusione del cinema d'autore e quindi del gusto. I telefilm sono diventati sempre più accurati nell'intreccio, più verosimili nelle situazioni e meno fumettistici (con tutto il rispetto per questo tipo di letteratura). Il numero e la durata degli episodi si è ipertrofizzato, il pubblico ha adottato alcune serie e personaggi, trasformandoli in cult, infine la competizione ha richiesto una narrazione sempre più specchio dello spirito dei tempi. Ne è nato un nuovo genere d'intrattenimento e considerando il sottogenere dei medical drama, ossia genere in cui i protagonisti sono medici o strutture ospedaliere, si può scomodare il termine edutainement (educational entertainment), presente da tempo anche su PubMed in tema di pedagogia medica.

Il medical drama, già nel 1964 aveva attirato l'attenzione del profondo studioso della comunicazione Marshall McLuhan (la comunicazione è il medium, il medium è la comunicazione). La citazione è d'obbligo: "Uno degli esempi più vividi delle qualità tattili dell'immagine televisiva si ha nell'esperienza medica."  Durante una lezione di chirurgia a circuito chiuso, gli studenti provarono uno strano effetto: non avevano avuto la sensazione di assistere a un'operazione ma di eseguirla, come se avessero avuto in mano il bisturi.  L'immagine televisiva, suscitando un appassionato desiderio di coinvolgimento profondo in ogni aspetto dell'esperienza, crea l'ossessione per il benessere fisico. L'improvvisa apparizione alla TV dei drammi sui medici e sugli ospedali, che reggono la concorrenza dei western, è perfettamente naturale." (Understanding Media: The Extensions of Man).

I medical drama d'inizio secolo, il XXI, per l'esattezza, nati, come ogni buona tendenza, negli ultimi anni del secolo scorso, ossia quelli prodotti negli ultimi quindici anni, seguono questa direzione, mostrando, però, operazioni sulle emozioni e sulla psiche. Hanno cinematograficamente masticato, digerito ed espulso la figura del medico contemporaneo, rendendolo de facto, mediaticamente superato. Sul medico del futuro se ne parlerà in altra occasione.

Un segno dei tempi, non solo catodici o cinematografici, ma sociali: l'arte, lo show, lo spettacolo ha saputo raccontare, virtuosamente, la poco virtuale via aesculapia, necessaria agli studenti di medicina e ai professionisti delle relazioni d'aiuto, per giungere nel mondo della sofferenza.

I medici, statistiche alla mano, di Usa, Europa e Canada, soffrono, o meglio "patiscono", "subiscono", la salute (attesa, persa, pretesa, difesa e alterata).

Gli studi sulla qualità di vita eseguiti su studenti di medicina, medici in formazione e professionisti avviati, descrivono una realtà, in numeri, molto vicina più alle usanze di Sparta che di Coo: il 50% degli studenti di medicina vive il burnout per almeno un anno di durata, soprattutto nei primi anni di studio. Il 12% di questi ha idee suicidarie. Il burnout diminuisce con l'età e la carriera, ma aumentano i dati sulla depressione.

Chiunque abbia masterizzato un cd o un dvd ha ben chiaro il termine burnout: il disco è ormai inutile, non è leggibile, da buttare o destinare all'arte del riciclo artistico per chi ha velleità artistiche. Non servire più allo scopo. Dopo anni di sacrifici e di servizio. 

Negli anni '70, Freudenberger richiamò l'attenzione su una delle possibili manifestazioni dello stress lavorativo, introducendo il termine di "Burnout". Questo termine indica una condizione di disagio rilevata tra lavoratori impegnati nelle cosiddette professioni di aiuto, specialmente nell'area socio-sanitaria. Il termine proveniva dal giornalismo sportivo degli anni trenata e serviva ad indicare un atleta in forma ma incapace di ripetere performance eccellenti. Ossia mens fiacca in corpore sana. Nei primi anni Ottanta a occuparsi in modo scientifico fu la Maslach, che mise appunto un questionario ancor oggi usato.

Volendo inquadrare la situazione in termini bio-psico-sociali, la retribuzione economica influisce, l'organizzazione del lavoro conta, o almeno si sperava avessero il peso maggiore nel fenomeno. Invece, leggendo longitudinalmente gli studi dal 1995 al 2009, il vero depauperamento patogeno è quello invisibile delle emotività e delle prospettive di vita. La banca della psiche si trova a contrarre, necessariamente, debiti con i pazienti cui non può far fronte, se non indebitandosi, dopo aver attinto alle proprie singole risorse. Potrebbe sembrare insolita l'analogia finanziaria ma è qui il punto: l'economia del Sé intersecata con l'ecologia della Salute. E nei medical drama gli psichiatri non recitano mai più di cinque battute di seguito (gli psicologi non compaiono, sono figure da fiction criminologiche, non sul mondo della salute).

L'insorgenza della sindrome negli operatori sanitari segue generalmente quattro fasi:

  1. entusiasmo idealistico, 
  2. stagnazione, 
  3. frustrazione (burnout), 
  4. apatia e morte professionale. 

Durante la terza fase, frustrazione, il pensiero dominante dell'operatore è di non essere più in grado di aiutare nessuno, con profonda sensazione d'inutilità e di non rispondenza del servizio ai reali bisogni dell'utenza. Il vissuto dell'operatore è un vissuto di perdita, di svuotamento, di crisi di emozioni creative e di valori considerati fondamentali fino a quel momento. Come fattori di frustrazione aggiuntivi, intervengono lo scarso apprezzamento sia da parte dei superiori, sia da parte degli utenti, nonché la convinzione di un'inadeguata formazione per il tipo di lavoro svolto.

Il soggetto frustrato può assumere atteggiamenti aggressivi (verso se stesso o verso gli altri) e spesso mette in atto comportamenti di fuga (allontanamenti ingiustificati dal reparto, pause prolungate, frequenti assenze per malattia).

Le serie che più incarnano la medicina di oggi, mettendone in risalto luci e, per fortuna, ombre, torniamo al burnout, sono tre: ERScrubs e Dr. House. Lo diciamo subito: il preferito è Scrubs, per cui ne parleremo meno.

ER: una ragione per tutte, non esiste un via migliore, solo prospettive. E' una metafora del patto sociale e delle sue varianti. Per questo, ad esempio, la direzione di un reparto d'emergenza è proposta come una leadership problematica, esportabile in altri contesti. Non c'è morale in ER, ma un arcipelago di posizioni etiche tutte comprensibili, ossia immedesimabili. Le ragioni degli altri e, a pensarci bene, perché non dovrebbe essere così? Per questo non c'è spazio per tutto ciò che non è previsto da un manuale di medicina interna o chirurgia. La follia, la stravaganza, il bizzarro o il comico, seppur non voluto: lo psichiatra della prima serie si scompensa a sua volta. I medici e il personale possono suicidarsi, il problema si pone per solo due volte, ma la parola "depressione" è bandita. Mai, anche sentire espressioni del tipo, "sono giù". Ai parenti invece è permesso. Notevole, quasi paradigmatica, la descrizione della difficile relazione fra un'infermiera e la madre affetta da disturbo bipolare, che rifiuta le cure. Una pentola scoperchiata che fa riflettere sul burnout di una delle professioni sanitarie più difficili: il parente.

La prossemica è rarefatta, codificata nei protocolli, percorsi esistenzialmente in via unidirezionale, tanto poi sono i malati a inoculare la diversità, l'imprevisto nella routine del defibrillatore.

Nei medical drama lo svuotamento delle risorse emotive è una situazione abbastanza comune, anzi c'è un vero e proprio turnover, a turno uno dei protagonisti o dei comprimari si sente vuoto. Generalmente in Scrubs viene risolta nel giro di una puntata, mentre in ER il tema dell'anedonia da vita a vere e proprie sottotrame, in cui si approfondiscono le psicologie dei personaggi giustificando la cosa con disturbi caratteriali (sociopatia latente) o con dipendenze (alcool, sesso) mai direttamente imputabili alla professione. Un perenne 11 settembre, in cui nessuno ha il vizio del fumo (noto invece che nella realtà i medici sono fra i più accaniti fumatori). Le regressioni sono invece onnipresenti in Scrubs, alleggerite da un tono grottesco e ritmo comico. Di fatto delle microcrisi cui il sistema colleghi/amici riesce, fortunatamente, sempre a far fronte.

Dr. House nasce in questo stato: passivo. Ha bisogno di uno staff ipomaniacale per carburare. Leader indiscusso e inarrivabile, quindi senza canali comunicativi che non passino per l'esercizio della propria unicità, reale o presunta: niente di nuovo, problemi di normale leadership.

House è cinico - come tanti medici -. Ha l'empatia al minimo - idem -, è sociopatico - idem -. Beve - come molti dottori -, prende delle sostanze per tenersi su - !?! -. Non fuma, non è Jan Gabin, in fondo. E' bravo, come un fumetto. Piace, in alcuni reparti ospedalieri ci si organizza per vederlo con i colleghi del turno notturno. Perché? Non ha sensi di colpa ed è diretto nel centrare il senso di colpa dei suoi collaboratori. Non è mandato in Alaska perché capace di non uccidere mai nessuno.

Qualcuno ha definito la serie "uno show che parla di zebre"!

House è se stesso quando non s'interessa dell'empatia e i suoi sottoposti, guarda caso, sbagliano quando comunicano troppo con i pazienti. Tutti mentono, potrebbe essere, infatti, il sottotitolo dell'intera serie. Naturalmente occorre un grande lutto per restituire, catarticamente, l'umanità all'erudito e, a modo suo ascetico, claudicante.

Se House è il male, perché continuano a stargli accanto? E' una domanda retorica per tutti quelli che vivono del proprio lavoro, tuttavia, ipotizzando un mondo in cui ogni medico possa scegliere il proprio lavoro, potremmo affermare che il discriminante sia la solitudine. Solitudine da alta specializzazione, da competizione, da ottundimento dell'emotività. Se passi una vita a far bene e meglio, nonostante tutto, puoi ritrovarti isolato con quel Venerdì di malato che, seppur bravo a parlare la tua lingua, non avrà la tua storia, la tua prospettiva. Umanizzare la medicina è un'espressione tautologica: la medicina origina dagli uomini. In termini evolutivi la comunità è lo sviluppo vincente per la sopravivenza del genere umano. E' umano anche sentirsi soli. A confronto con qualcosa di più grande (la sofferenza) ci si spaventa o ci si meraviglia. Meglio la seconda, anche se stillata in dvd.

Luigi Starace - Media Consultant della Cattedra di Psichiatria dell'Università di Foggia e della Società Italiana di Psichiatria Sociale (Sips). Direttore Responsabile IJPC. Direttore Responsabile Stigmamente Italian Jorunal of Medical Humanities. Su gentile concessione dell'autore, IJPC 2009; 1, 2.

L’ultimo film di Spielberg ha scontentato un po’ tutti. Illogico, senza continuity, prevedibile, ridondante.
Se la chiave di lettura, una fra le tante, fosse quella di osservare il film come un’allucinazione della bambina protagonista atta a recuperare la figura di un padre lontano e indifferente ?
Certo non è il primo film di presunta science-fiction del regista, né la prima volta che parla di famiglia…

 

ntroduzione

"Volevo rendere questo film simile ad un prisma, in cui ognuno può vedere una sfaccettatura diversa. Quindi ho cercato di renderlo più aperto possibile all'interpretazione [..] ho messo insieme tanti elementi, in modo che ognuno possa avere la sua opinione."
(Spielberg per intervista a La Repubblica )

 

Gli artisti sono il limite di loro stessi. Dopo l’apice entrano in ridondanza.

Non tutti però. Alcuni smettono mentre fra gli altri, quelli che continuano, i più coscienti ( o prudenti ) realizzano le opere successive come "variazioni sul tema". In buona fede si potrebbe pensare che idea che fa botteghino non si cambia, sarebbe anche semplice in fondo. Inoltre aggiungere qualcosa di originale nelle opere successive sarebbe sempre più difficile perciò il prodotto proposto sostanzialmente non cambia.

Invece con malizia ( analitica ? ) si potrebbe pensare che il core, il nucleo caldo sia ancora scoperto e che l’artista senta ancora il bisogno di esporlo. Per raffreddarlo, consegnarlo, permettere che venga scoperto ?

Non è cosi importante appurarlo invero, o almeno non così primario, urgente come il produrlo.

Tale è l’opera , non quale l’artista.

 

La science-fiction e il regista

Ma cosa è per Spielberg la fantascienza:

"La fantascienza è una vacanza che mi tiene lontano da tutte le regole della logica narrativa. E' una vacanza dalla fisica di base. Ti permette di lasciarti alle spalle tutte le imposizioni e di volare. Noi, come esseri umani, non possiamo volare e invidiamo gli uccelli per questo. Io invidio Tom Cruise perché pilota aeroplani e jet mentre io non posso farlo, ho troppa paura. Per la maggior parte di noi, la fantascienza è l'unica possibilità di volare veramente. E' per questo che amo tanto questo genere e ci ritorno sempre, perché non dà limiti all'immaginazione. La sfida, in questo caso, è stata quella di far sembrare comunque credibile il film. Sia io che David Copp, lo sceneggiatore, abbiamo fatto in modo di far sembrare i personaggi più reali e normali possibile. Detto questo, la fantascienza rappresenta per i registi una grande fuga." ? (intervista per La Repubblica)

La fantascienza dei film di Spielberg è "magica". Per questo scontenta i puristi del genere e in fondo un po’ annoia. Se ci fosse altro sotto però ?

" A parte i problemi di originalità, a volte le vicende sono tanto forzate e innaturali da sfiorare il ridicolo. Avrebbero dovuto intitolare il film "Una Serie di Fortunati Eventi" (tanto per rifarsi al titolo di un recente film tratto dai libri di Lemony Snickets): l’eroe di turno e la sua famiglia non vengono scalfiti nemmeno dalla più drammatica delle catastrofi. Per una serie di fortunate coincidenze la famiglia Ferrier è l’unica a trovare un’automobile. E si tratta di un'auto magica, visto che riesce magicamente a passare senza intoppi attraverso un fittissimo ingorgo autostradale e riesce a restare illesa anche quando viene parcheggiata di fianco ad un quartiere e ad una abitazione che rimangono quasi completamente distrutti. ". Daniele Toninelli

"La mia vera natura ha voluto che facessi 'E.T.' e 'Incontri ravvicinati del terzo tipo', ma lo spettatore che è in me ha sempre voluto fare 'La Guerra dei Mondi'. Cosa c'è di più elettrizzante di una guerra tra la razza umana e gli extraterrestri?". Spielberg

" Spielberg non si accontenta della fine degli invasori alieni rovinando quel poco che restava da rovinare chiudendo il film con un quadretto di famiglia, viva e vegeta fino alla terza generazione grazie a chissà quale miracolo, che più che portare sollievo fa urlare di rabbia lo spettatore. Già ci siamo dovuti bere il fatto che gli alieni siano venuti sulla Terra senza prendere le più elementari precauzioni chimico-batteriologiche (potevamo bercela ai tempi di Wells, nel 2005 è ben più difficile), ma il lieto fine a tutti i costi, riconciliazione padre/figlio compresa, è stato davvero troppo. " Silvio Sosio.

I tempi di narrazione sono quelli di un bambino, lo spazio e gli oggetti propri degli adulti.

Invero Spielberg è ormai un veterano della dissimulazione del significante narrativo: usare la fantascienza o la fantasia per poter parlare in sfondo della famiglia, o meglio del suo modello medio borghese "american way of life" ( un uomo deve fare cio’ che un uomo deve fare, il coraggio ma non a sfondo catartico proveniente dall’amore-incontro-scoperta dei figli o il ritrovsamento del prorpio status di figlio )

To tell the truth molta della produzione western dagli anni 30 ai 50 era imperneata di tematiche e conflitti a forte caratterizzazione edipica. Ciò è tanto vero che il Leone d’oro di quest’anno, a distanza di 50 anni dall’epoca d’oro del far west, l’ha vinto il regista Ang Lee ( lo stesso di Hulk e La tigre e il dragone ) con un film sui cow-boy gay (Brokeback Mountain )

Spielberg trasla dal latte del far west alla via lattea del so far far away. I fuorilegge braccati e agognanti il Messico nascosti dai figli dei braccanti ( e quindi oggetto di sfida verso le pre-generazioni ) per esempio,diventano alieni maldestri che provano a fare una collect call ( chiamata a carico del destinatario ) su Alpha Centauri e affini, capaci tuttavia di realizzare ( garantendo questa volta una gratifica preclusa ai loro omotetici in bianco e nero ) i piccoli sogni rompi monotonia dei figli, come volare con la bici al chiaro di luna . Non è quindi solo un finale meno mortifero a far meritare l’etichetta di ottimista al nostro cineasta. Qualcuno a lui vicino si spingerà anche oltre, ribaltando le posizioni, non solo giustificando la ribellione figliare bensì innalzandola a crociata contro l’abisso, il lato oscuro. Figli cosi forti o impauriti dalla realtà che è possibile accettare ma non assimilare:

- Luke! Io sono tuo padre —

Luke Skywalker, capace di interagire autonomamente con La Forza cosmica, sente che è la verità, che quello è suo padre, ma preferisce lasciarsi cadere dentro un lungo tunnel terminante nel vuoto più che seguirlo. Guerre Stellari: a volte non c’è spazio più lontano della stanza affianco. Dall’ottimismo all’autonomia di un figlio, di una generazione, come si comprende bene dalle parole di Walter Murch ( montatore da tre Oscar ) parlando di Lucas: " Così si disse: okay, se è troppo scomodo politicamente come soggetto attuale, trasferirò la storia altrove e la farò accadere in una galassia lontana nel tempo e nello spazio. I Ribelli sono i nordvietnamiti e L’Impero gli Stati Uniti. E se possiedi la Forza, non importa quanto sei piccolo, puoi sconfiggere il grande potere oppressivo." Guerre Stellari è la versione di George Lucas di Apcalypse Now." ( Il cinema e l’arte del montaggio )

Illuminante, no ?

 

Una considerazione gruppale

Un film o una serie di film dello stesso regista permettono più che l’etichettatura del singolo artista, una collocazione antropologica del filtrato-lavoro nel background sociale di riferimento. Escludendo la funzione filtro ( alfa in termini bioniani ) del cineasta e focalizzando non sul "perché" ma sul "come" i piani di interpretazione si moltiplicano, consentendo, nella riflessione psicodinamica della interfaccia artista-opera—spettatori, l’emergere dele realtà gruppali inconscie, determinanti, oltre alla maestria talentosa della troupe, il successo del film. Inquadrabile apparentemente in un assunto di base bioniano di attacco-fuga La Guerra dei due mondi non ha riscosso il successo sperato in Europa ( eppure Walsh, lo scrittore del romanzo anti colonialista da cui i film sono stati tratti e i vampiri sono forieri di copyright europeo ). Di fatto, per il modo in cui il nemico è debellato la meta trama è riconducibile all’assunto di base di dipendenza: i nemici sono sconfitti dal sangue infetto che risucchiano e da un elemento invisibile agli uomini, il microbo. Anche la voce narrante in epilogo sentenziante che : " Nessuna morte è vana " mi induce ad affermarlo. C’è di fatto il miracolo ed è ciò che anche lo spettatore in sala mormora umoristicamente.

 

La filmografia spielberghiana, la ricorrenza.

- Sci-fi:

1977-Incontri ravvicinati del terzo tipo: un gruppo eterogeneo di persone riceve l’incipit da entità extra terrestri per un monte su cui sbarcheranno. Il protagonista abbandona tutto per arrivarci compresi moglie e figli che gli danno dello strambo. Riunirà nel close encounter, tanto da venir adottato dagli alieni e andar via con loro dopo una metamorfosi ad acta

1982-ET: un alieno simpatico viene protetto da un gruppo di ragazzini in bici. Cucciolo perso nella periferia della Via Lattea tra cuccioli della provincia americana saprà meravigliarli e grazie al loro aiuto-protezione tornerà a casa.

2001-AI: dopo millenni solo NY rimane a documentare i nostri giorni e nel profondo di quello che era l’Atlantico gli esseri oblunghi e iridescenti del Futuro trovano il pinocchio-androide addormentato mentre era alla ricerca della mamma-fata turchina. Potranno grazie alla tecnologia fargli rivivere il passato e finalmente potrà festeggiare il suo compleanno "in famiglia" ( film nato da un plot imbastito da Kubrick in cui il finale da mezzora è totalmente spielberghiano ).

2002-Minority Report: Sempre un Tom Cruise tormentato per la perdita della sua famiglia e intento ad evitare che altri soffrano per omicidi futuri ( i futuri criminali sono arrestati nel presente prima che commettano il crimine ).

- Non sci-fi :

1991-Hook: Peter Pan non riesce a staccarsi dal cellulare e il figlio si lascia adottare da Uncino. Per riconquistarlo il satirello volante dovrà tornare a fare scherzi da prete, pardon, da peter-pan, essere accettato dagli altri marmocchi e mostrare il suo coraggio in duello. Non volava perché non fantasticava più. Uncino seduce il figlio di peter grazie al baseball…

1997-Salvate il soldato Rayan: una dozzina di soldati viene mandata in missione (suicida) dietro le linne nemiche per recuperare dopo lo sbarco in Normandia il quarto figlio arruolato, paracadutista disperso, e unico ancora in vita. Mamma America non vuole che una mamma del missisipi pianga ancora. Inutile dire che è l’unico a salvarsi, dalle brutture della guerra e dalla morte.

Insomma condita con salse diverse ma la pietanza dal sapore quasi winnicottiano sembrerebbe esserci e lo stesso regista nell’ intervista già citata ammette che non è lui quello capace di far film "disperati". Sarà vero, ma la miopia c’è…

 

Contesto famigliare

Che il vero nucleo narrativo del film sia la famiglia, con tutte le difficoltà che comporta metterle in scena qualcuno se n’è accorto :

Spielberg fa leva, esattamente come in molti temevamo, sui sentimenti più epidermici e deteriori, riducendo il tutto a un apologo moraleggiante sulla ritrovata unità familiare di fronte alle avversità. Malgrado in varie interviste dai toni trionfalistici e autocelebrativi il "più grande regista della storia del cinema" (permettetemi di dissentire ) abbia dichiarato il contrario, c’è soltanto un vaghissimo accenno alla verità proclamata da Wells, cioè la lotta per la sopravvivenza di due razze .Massimo Manganelli

Parlare di rapporti familiari per un regista, in genere, non è una passeggiata:

" …I vissuti personali del regista lo inducono ad adottare un atteggiamento prudente.Egli preferisce non proporre una " terapia familiare " che inevitabilmente lo farebbe entrare in risonanza con la propria famiglia d’origine o con quella acquisita. Le problematiche familiari, pur presenti nei vari film, vengono affrontate con l’utilizzo di un piccolo espediente. La famiglia viene smembrata, frazionata in tanti sottosistemi e l’attenzione focalizzata su alcune diadi …" ( L’analista in celluloide, Ignazio Senatore )

Tom Cruise conferma che è una tattica vincente:

" Adoro il modo in cui Steven Spielberg affronta il concetto di famiglia nei suoi film "

 

La Trama del film

Protagonista del film si chiama Ray Ferrier, lavora come operaio specializzato nei cantieri navali del New Jersey, è un padre separato inaffidabile e un po' sbruffone incaricato di passare con i due figli il classico week-end dove, in ossequio alla legge di Murphy, tutto ciò che può andar male lo farà. Dopo le prime anomalie atmosferiche - miriadi di fulmini che cadono nello stesso posto senza alcun tuono -, il buon Ray s'imbatte con stupefatto terrore in un oggetto non identificato che affiora dal suolo stradale ed inizia a polverizzare la folla circostante senza pietà di sorta. Da quando la minaccia si manifesta in tutta la sua gravità il padre irresponsabile tenterà d'impegnarsi al meglio per far continuare a respirare due rampolli che lo sopportano a malapena, e nel tentativo non si risparmierà nessuna furbata di sorta. L'avanzata inarrestabile dei tentacolari tripodi extraterrestri proseguirà in un'escalation di panico, colorandosi di inedite tinte vampiresche durante l'incontro della famiglia in fuga con un superstite ormai ottenebrato dalla sindrome della resistenza a tutti costi.

 

L’ allucinazione della bambina, una proposta di lettura

A mio avviso uno dei metatesti possibili de La Guerra dei Mondi è proprio quello del sogno immaginario della bambina figlia del protagonista.

Sulla base della mia esperienza personale in casa famiglia per minori in affido non trovo insolito che la figura paterna assente o indifferente al bambino sia idealizzata fino alla onnipotenza.

Non potrebbe allora accadere che una bambina "ricodifichi" tutto il mondo circostante per poter assimilare e metabolizzare un padre che seppur umano sembri vivere su un pianeta lontano ( come sembra lontano, ma non lo è il New Jersey da Boston ) ?

"Nel bimbo n on c’è disitinzione tra rappresentazione, degli oggetti reali, e affetto: l’affetto si rivela quale primo prodotto mentale, e come tale entra a far parte ,determinante, delle incipienti capacità rappresentazionali. Gli oggetti che il bimbo si rappresenta sono mutevoli e, per noi, confusi: un oggetto può al contempo essere anche un altro. Ciò si evidenzia nel disegno spontaneo dei bambini. Possono disegnare un affare strano che conteporaneamente è un albero, ma anche un cane; e per loro è contemporaneamente tutti e due. Bisogna essere a contatto col bambino, per entrare dentro questo suo mododi vedere: non si può chidergli " Cosa hai disegnato ?", perché allora lui ci risponderà in termini compiacenti alla nostra struttura adulta. (Imbasciati-Fondamenti psicoanalitici della psicologia clinica)

C’è il viaggio alla fine del quale tutto è risolto e il tripode è attaccabile non perché il suo campo di forza è stato forzato o annullato ma perché il suo abitante-manovratore è malato.

Gli Altri di Altrove sono impercettibili come fantasmi e come tali scendono dal cielo, ma ingombranti come angoscie essi emergono dal sottosuolo terrorizzando e dissolvendo letteralmente gli adulti. Eppure diventano totalmente digeribili e assimilabili in sembianze e atteggiamenti ( guardano foto, girano la ruota della bici… ) agli occhi della bambina protagonista.

Gli alieni sembrano avere un atteggiamento persecutorio nei confronti dei due fuggitivi, padre e figlia, soprattutto quando questi si credono al sicuro, rintanati nello scantinato. Di fatti gli alieni tornano più volte ad ispezionare lo scantinato fino a scovare gli umani. ( altra lettura: vengono scoperti dopo che il padre aveva soppresso il suo opposto ed è quindi costretto ad affrontare i mostri più grandi. Non ci riesce e la figlia urlante ( ma è una costante nel film) e tutt’altro che paralizzata dal terrore ( sono proprio queste le scene in cui, dall'inquadratura e dal taglio di ripresa, evincerebbe che è la bambina il fulcro, l’occhio immobile del ciclone ) viene catturata. Al padre non resta che farsi catturare compiendo l’atto catartico del sacrificio, cui seguirà, senza che il neo eroe l’abbia voluto (deus ex machina) la distruzione del tripode, dal suo interno. Gli uomini prigionieri in cesti giganti saranno di nuovo liberi e senza un graffio dopo un volo di 10 metri.

L’unica figura femminile adulta del film è una amica di papà e sembra anche simpatica. Peccato non riesca a seguirlo mentre stanno salendo su un traghetto-salvatore.

Non ci riuscirà metà della gente presente sulla riva. Ma la trama non volge al cinismo e anche il battello salvatore viene affondato. Riescono a salvarsi in pochi…

Nella scena del battello emerge l’altruismo del fratello maggiore e ancora l’impotenza del padre. Nel nodo narrativo successivo il figlio si separa dal padre per unirsi all’esercito in lotta. E’ una separazione strana per i canoni hollywoodiani: non c’è ne investitura ne attrito. L’addio viene interrotto dalle urla della bimba, raccolta da altri e quasi potata via per la distrazione paterna, o per le eccessive( ? ) attenzioni date al figlio. Non c’è addio fra i fratelli, ne la bimba accennerà alla cosa in seguito.

Le scene ambientate nello scantinato a detta di diversi critici sono accessorie e non necessarie al plot, ma come da studi sugli effetti del cinema negli spettatori ( schermi violenti- Imbasciati ) le parti considerate più " brutte " sono anche le più ricche di spunti al dibattito. Ecco dunque che osservando ancora questa sequenza si nota che la bambina è l’unica a vedere le sembianze degli alieni che scendono giù in perlustrazione: il padre e lo sconosciuto lottano, in silenzio fra loro per un fucile. Il viso della bambina viene inquadrato in primo piano: l’occhio che spia da una fessura gli Altri è illuminato, quello rivolto ai due adulti che lottano è in ombra. E’ libera di vedere ora, mentre per tutto il film il padre le aveva vietato di guardare sia i tripodi giganti sia la distruzione intorno ripetendole " tieni gli occhi su di me" . La bimba osserva gli alieni curiosare maldestramente fra foto di famiglia e biciclette : nessun orrore ( gli alieni hanno abitudini vampiresche ) e il clima di suspence si stempera in Gianni e Pinotto.

Per un cinefilo, ma non solo, un tale cambio di climax è inaccettabile. Per un bimbo, no…

Per tutto il film il padre si oppone alla violenza mostrata : prima lascia cadere la pistola per poter riavere la figlia bloccata in macchina, poi cerca in tutti i modi di evitare che il figlio maggiore vada a combattere i mostri, di seguito blocca lo sconosciuto prima che spari ad un alieno. Risulta paradossale allora che decida di strangolare lo sconosciuto perché rumoroso quando basterebbe imbavagliarlo. Lui non vorrebbe ma è per "salvare la bambina" ( gli alieni sono ipersensibili ai suoni e possono rintracciarli facilmente ).

Chiude gli occhi e tappa le orecchie della piccola, va nell’altra stanza e ritorna dopo un paio di minuti. Lo sconosciuto,guerrafondaio paranoico e primitivo , l’opposto del padre, quello che si era anche offerto di badare alla bimba se il genitore fosse perito non c’è più, non compare più. Possono dormire tranquilli ora. Ma un grosso occhio spia alieno li scova comunque: al padre ora tocca affrontare , dopo il suo opposto nello scantinato, il grande tripode, vampiro e persecutore, in scalfibile…in campo aperto. Un altro "se stesso" da affrontare ?

Dopo la distruzione fortuita ( una serie di granate innescate senza la volontà del padre ) del tripode i due raggiungono sani e salvi la città in cui vive la madre. Termina il viaggio: la città è sicura, non è stata distrutta pur essendo invasa.

E’ qui che un ‘altra invisibilità si concretizza: i batteri ammorbano gli alieni, ma questo si scoprirà solo dopo e solo grazie all’epilogo del narratore. Il padre ha in braccio la figlia, è protettore ormai, non più indifferente a lei e alle sue allergie. E’ lui a scoprire e indicare ai militari che il campo di forza introno ai mostri di acciaio non c’è più. Migliaia di militari guardinghi ma non sagaci, si direbbe. E’ fatta i mostri sono attaccabili. E’ vittoria. E’ anche felicità perché tutti sono vivi e raccolti nella casa materna, anche il fratello maggiore scampato ad un’esplosione devastante.

La grande invasione, la grande paura capace di muovere — commuovere gli adulti…

Solitudine più isolamento uguale allucinazione ?


 di infanti reali. Una proposta di lettura del film "La guerra dei mondi"

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