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Articles by "libri"

 

Matsuteia ed E.T.A. Egeskov
Volevo essere un supereroe della Marvel – vol. 1



Un agile volumetto che non pretende di essere esaustivo, solo di raccogliere una serie di curiosità sui supereroi degli universi Marvel - che sono davvero tanti (quasi 1000!) tra buoni e cattivi (persino più affascinanti) -, anche perché ci sono già molti saggi specifici che contengono di tutto sulla Casa delle Idee. 


Sono un fan della Marvel dal 1970, dal giorno in cui fui affascinato in edicola da L’Uomo Ragno contro Lizard, Editoriale Corno, subito dopo essere stato irretito da Mentre la città dorme, protagonista il Devil dal costume giallo e nero di Stan Lee e Wallace Wood. Confesso che leggo Marvel ancora oggi, certo solo i personaggi classici, cose nuove come Venom e Deadpool (che i ragazzi amano) un po’ mi disturbano, riesco ad apprezzare poco persino un grande disegnatore come Todd Mc Farlaine, cresciuto come sono a Ditko e Romita, per me il massimo di modernità restano Kane, Kirby e Buscema. Non solo, mi capita di vivere come un tradimento certe trasposizioni cinematografiche di Spider Man, soprattutto le ultime, mentre ho apprezzato molto il cartone animato di Sara Pichelli con il nuovo Uomo Ragno di colore (Miles Morales). Detto questo veniamo al libro, un piccolo e prezioso manuale che in certi casi dice cose che un appassionato conosce, ma in altri fa compiere vere e proprie scoperte al vecchio lettore. 


Per esempio mi è servito a capire che il nuovo Nick Fury cinematografico è il figlio di quello che leggevo negli anni Settanta. Poi fa piacere rileggere anche quel che sappiamo, trovarlo sistemato in maniera ordinata, come la storia su Spider Man che l’editore Martin Goodman proprio non voleva pubblicare: Chi vuoi che si appassioni alle vicende di un uomo con i poteri di un ragno? Per fortuna ebbe ragione la testardaggine di Stan Lee. 


L’Uomo Ragno conta versioni da romanzo grafico strepitose, vera letteratura a fumetti, oltre a una serie regolare che - tra alti e bassi - resiste in edicola dal 1962. Gli autori del libro raccontano lo sbarco Marvel in Italia, al quale ho assistito in prima persona, negli anni Settanta, prima su Linus (grande Oreste Del Buono, quasi mio compaesano!), poi su Sergente Fury (possiedo molti numeri), infine con la mitica Corno. I due autori non dimenticano le vicende moderne con Star Comics e Play Press, per poi parlare di Panini unica depositaria del verbo Marvel. Il libro analizza la continuity - fenomeno che rende diversa e unica la Marvel -, i cross-over, il primo eroe omosessuale, gli autori che hanno fatto la storia, i problemi con il Comics Code per la troppa attualità dei racconti (droga, razzismo, Vietnam …). 


Una sezione finale è riservata agli attori dei film che hanno impersonato gli eroi Marvel, importante per rendere il tutto più attuale e appetibile per i fan contemporanei. Per quel che mi riguarda resto legato al passato, al profumo di quella carta colorata della Corno, che oggi ritrovo - come una madeleine proustiana - nella collezione da edicola Super Eroi Classic, edita dal Gruppo  Rizzoli in collaborazione con Panini. Per chi ancora non conosce la Marvel questo piccolo libro è una vera e proprio guida virgiliana in un paradiso fantastico che noi ragazzini nati negli anni Sessanta abbiamo vissuto desiderando tutti trasformarci in Super Eroi Marvel!  


Gordiano Lupi


Per acquistare il libro: https://www.amazon.it/dp/B0865BNNV5/


Il dottor Stranamore scava nell’età dell’ansia del cinema americano, quando la paura del nemico comunista produsse una serie di film con al centro l’incubo della bomba atomica. Alcune pellicole della prima metà degli anni Sessanta sconvolsero le coscienze mostrando come l’avvenire del pianeta fosse tra i pulsanti e le esplosioni di una tecnologia dal complesso sistema di controllo, dietro il furore delle ideologie. Kubrick rappresenta tutto questo senza pontificare o filosofeggiare, ma audacemente mettendo in scena l’ultimo capitolo della nostra commedia umana: un’immensa, sardonica, irriverente e tragica risata sull’assurdità di una razza così indaffarata a realizzare, con accanimento spesso geniale, la propria distruzione.

Tutto su un film potrebbe essere il motto di questa nuova collana di Edizioni Il Foglio, dedicata al grande cinema che ha segnato non solo la storia di un’arte, ma anche stagioni della nostra esistenza, visioni personali e collettive depositate in una memoria che ritorna per immagini ed emozioni. Sono libri per approfondire singoli film, per meglio conoscere gli aspetti segreti e nascosti di un’opera, ma anche atti d’amore per il cinema, il piacere di essere messi a parte di una passione, condividerla. Penetrare intimamente nel corpo di un film, fino quasi a provare l’illusione di riviverne la creazione, la visione, quel che accade dopo. Sentire l’effetto cinema attraverso la lettura, restare nel suo universo ed essere curiosi delle connessioni con gli altri linguaggi. E allora non si poteva cominciare meglio questa collana che con Il dottor Stranamore, il più esplosivo film di uno dei più matericamente visionari registi della storia del cinema: Stanley Kubrick. Un’irriverente rappresentazione della guerra fredda, quando l’avvenire del pianeta sembrava tra le mani di politici e militari sempre sull’orlo di una terza guerra mondiale, tra bombe atomiche, pulsanti e valigette di una tecnologia dal complesso sistema di controllo dietro il furore delle ideologie. 


Kubrick racconta tutto questo come se mettesse in scena l’ultimo capitolo della nostra commedia umana: un’immensa, sardonica, tragica risata sull’assurdità di una razza così incredibilmente indaffarata a realizzare, con accanimento spesso geniale, la propria distruzione. (Davide Magnisi)

 

 

Davide Magnisi, docente e critico cinematografico, ha collaborato con quotidiani, riviste, siti internet e rassegne cinematografiche. Ha pubblicato un volume su Stanley Kubrick (Gli orizzonti del cinema di Stanley Kubrick, 2003), due su Fernando di Leo (Di Leo calibro 9, 2017; Il cinema di Fernando di Leo, 2017) uno su Sam Mendes (Sam Mendes. Da Shakespeare a Bond, 2018) e uno su Ruggero Deodato (Cannibal Ballad, 2019), oltre ad aver preso parte a numerosi libri collettanei (Cineasti di Puglia, 2006-2007; 10 – Il cinema di Sergio Rubini, 2011; Riccardo Cucciolla, 2012; Il cinema di Domenico Paolella, 2014). Membro del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani e della Fipresci, è stato più volte giurato in festival del cinema internazionali.


Autore: Davide Magnisi

Titolo: Il dottor Stranamore, ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba

Pagine: 126

Formato 15x21

Prezzo: 12 euro

Collana “I film del foglio”

L'ultima fatica letteraria dello storico Michele Eugenio Di Carlo prima fra le novità' e nono in classifica Bestseller in Storia moderna e contemporanea dal XVIII al XX secolo.

L'immagine può contenere: spazio al chiuso, il seguente testo "Michele Eugenio Di Carlo La fine del Regno delle Due Sicilie con prefazione di Pino Aprile SUD DA BORBONE A BRIGANTE"

Dalla prefazione di Pino Aprile:

Questo è un libro importante e molto ben fatto. Il suo valore consiste nella chiarezza dell’esposizione, nella puntualità (pignoleria, direi) del richiamo alle fonti e nell’intelligenza della scelta dei brani da confrontare e che riescono a riassumere molto. Insomma, sarebbe da segnalare e leggere solo perché un buon libro lo merita.

Invece, il maggior pregio di questo volume (senza nulla togliere all’autore) è in una domanda: perché un lavoro serio come questo non lo abbiamo da tempo immemorabile a cura di titolari di cattedra di storia? Perché il raffronto con quel che scrivevano autori “dalla parte dei vinti” è stato (salvo poche, tardive e lodevoli eccezioni) scartato a priori? Perché la versione degli sconfitti, da Giacinto de’ Sivo (“Storia delle Due Sicilie”), a Raffaele De Cesare (“La fine di un Regno”) è stata irrisa, ritenuta inattendibile per definizione, perché portatrice del presunto risentimento dei vinti che potrebbe deformare i fatti.

Così, la “buona storia” è la versione dei vincitori, che narra come necessaria per un alto fine una invasione senza dichiarazione di guerra, tace di paesi rasi al suolo, di rappresaglie con migliaia di morti, centinaia di migliaia di incarcerati e deportati senza accusa, processo e condanna. Quando chi compie queste cose non vince, ma perde, si parla di crimini di guerra. I fatti e i modi sono sempre quelli nel percorso dell’umanità, cambia il modo di raccontarli: un passo avanti verso una più alta civiltà, nella versione dei vincitori, un delitto in quella dei vinti.

I Vicerè

Così, la storia ufficiale finisce per giustificare le cose come sono andate, perché così “dovevano” andare e il racconto attribuisce ai protagonisti un disegno chiaro a loro e, a posteriori, a tutti (salvo botte di sincerità quale quella di Oliver Cromwell, che quando gli chiesero come avesse costruito le basi della potenza britannica, rispose, più o meno, che nessuno va così lontano come chi non sa dove sta andando). Mentre il racconto dei vinti avviene attraverso l’arte: la letteratura (“I viceré” di Federico De Roberto, “La conquista del Sud” di Carlo Alianello, “Il gattopardo” di Tomasi di Lampedusa…), la musica (basterebbe “Brigante se more” di Eugenio Bennato e Carlo D’Angiò), la pittura (si pensi a Goya, a Picasso con Guernica…).


Di Carlo riprende la voce inascoltata dei vinti (e molti ce ne sarebbero da aggiungere, dal duca di Maddaloni, unitarista deluso, costretto a scrivere sotto lo pseudonimo di Ausonio Vero, all’anonimo autore dell’imperdibile “Pro domo mea”, che io stesso scoprii essere Vincenzo degli Uberti, grande intellettuale e ingegnere unitarista ferito e ridotto al silenzio) e analizza le cose che raccontano. Lo fa affiancando alle loro opere quelle degli storici ufficiali, come detto. Con il risultato, senza alcuna forzatura, che i vinti dissero la verità. Si può discutere del dettaglio, come sempre, ma meritavano ascolto e considerazione.

Per più di qualcuno non è una sorpresa. Basterebbe ricordare quanto pubblicato, con dovizia di documentazione e indubitabile adesione ai principi risorgimentali, dal professor Umberto Levra (docente di storia risorgimentale all’Università di Torino; presidente dell’associazione degli storici risorgimentali; presidente del Museo del Risorgimento italiano) sul fine della Società di Storia Patria voluta dai Savoia nel 1830 e governata in modo ferreo, almeno sino al 1920, da due-tre famiglie: riscrivere di volta in volta la storia per adeguarla alle politiche sabaude; distruggere i documenti compromettenti, rendere inaccessibili altri. E ancor oggi, stando a quanto affermato da Alessandro Barbero sul dovere degli storici (e non solo), i sabaudisti (questo il nome in cui si riconoscono quei custodi dei fatti nostri) devono mirare a formare uno spirito nazionale più che dirci cosa accadde davvero. Tanto che sia Levra che il colonnello Cesare Cesari, direttore degli Archivi militari, autore di una importante storia del Brigantaggio pubblicata un secolo fa, scrivono che i documenti così “patriotticamente” distrutti sono talmente tanti, che non si potrà mai più ricostruire come andarono veramente le cose. Cesari specifica che il danno maggiore è proprio la sparizione di testimonianze e carte parlanti dei vinti.

Eppure, quello che fu prodotto e divulgato in quegli anni bui, da contemporanei (pur fra tante difficoltà: persecuzioni, processi, esilio, sparizione di opere pronte alla stampa, distruzione di tipografie), è stato accantonato.

E non lo meritava.

Alcuni storici di professione, da Roberto Martucci (“L’invenzione dell’unità d’Italia”) a Eugenio Di Rienzo (“Il Regno delle Due Sicilie e le potenze europee”, pur con un successivo rifacimento al ribasso, poco comprensibile), a John A. Davis (“Napoli e Napoleone. L’Italia meridionale nelle rivoluzioni europee 1780-1860”) ne avevano già dato atto; e tracce possono trovarsi in tanti altri, storici e no, da Paolo Mieli a Carlo Azeglio Ciampi. Ma l’opera di Michele Eugenio Di Carlo è sistematica, onestamente distaccata, senza timori di “sembrare” squilibrata, quindi preconcetta, in un senso o nell’altro.

Un lavoro che sarà di aiuto a quanti, senza pregiudizi, o persino avendone, vorranno guardare con la distanza del tempo quegli avvenimenti. Sarebbe ora, perché fu allora, mentre si fingeva di unificarlo, che il Paese venne diviso fra un Nord acchiappatutto e un Sud ridotto a colonia, con la nascita, a mano armata, della Questione meridionale.

Se lo si volesse unire, bisognerebbe ripartire da dove il filo, anche della verità, fu spezzato.

Il libro di Di Carlo è molto utile.

 

P.S.: il testo è immediatamente disponibile sia in formato cartaceo che e-book al seguente link:

https://www.amazon.it/SUD-BORBONE-BRIGANTE-Sicilie-prefazione/dp/B08LG194QR/ref=sr_1_1?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85%C5%BD%C3%95%C3%91&dchild=1&keywords=sud%20da%20borbone%20a%20brigante&qid=1603442453&s=books&sr=1-1&fbclid=IwAR34k2DtATvFgejru9wAZRvOb_qGczdAG-ASOMha9NXdhMiBklnbo9gYl2Q

I primati del Regno delle Due Sicilie che resero Napoli una vera capitale


Risultati immagini per le quattro casalinghe di tokyo personaggiLe quattro casalinghe di Tokyo. Note noir, delitti efferati, amori grotteschi, lenzuola tinte di cupe volte notturne e luci al neon riflesse su uno scenario suburbano decadente, di questi essenziali elementi si compone il romanzo, pubblicato in Italia da Neri Pozza nel 2003, il cui titolo originale è Out, scritto da Natsuo Kirino, autrice giapponese, classe 1951.

 In questo romanzo giallo di 700 pagine sono raccolti, sotto lo stesso accogliente tetto, i versanti più oscuri dell'animo umano, partoriti dalle vischiose spire della frustrazione, del risentimento, dell'incomunicabilità e dell'afferimento a ceti e ruoli sociali rigidi e costrittivi, che vedono come ultima e unica via di liberazione il delitto, l'aberrazione e il lavoro notturno.
 In un Giappone contemporaneo, dalla struttura ferrea, quattro donne decidono di acquisire un pezzo della propria libertà economica lavorando come operaie in una fabbrica di pietanze pronte al consumo.

 In quest'ambiente, intriso di vapori caldi del cibo cotto frammisti a sanitizzante industriale, Masako, Yayoi, Kuniko e Yoshie, intrecciano parte delle proprie esistenze, immergendosi, notte dopo notte, in un oceano nero di crimini meticolosamente premeditati e tracciando i propri passi con scie di sangue, difficilmente estinguibili. Altri personaggi enigmatici si avvicendano nell'evolversi incalzante del racconto, i quali minano ulteriormente il concetto di integrità morale e umana, in contrasto con la mistificazione della società modello nipponica, descritta dalle virtù della precisione e dell'esattezza, ma macchiata, di contro, dalla violenza impressa da strutture e sovrastrutture culturali nell'individuo-automa.

 Lo stile fluido, scorrevole rende il complesso narrativo avvincente e la tensione, tipica dei thriller, tiene il lettore col fiato sospeso sino all'ultima pagina.

Una chicca imperdibile per gli amanti del genere, non adatto ai deboli di stomaco.

Recensione di 𝕸𝖆𝖗𝖙𝖎 𝖓𝖆 per Cafe sur la Lune ( https://t.me/joinchat/DO6Q8RD4RWMYuEK6dAz3Ug)


APPROFONDIMENTO SULLA  AUTRICE 


https://it.wikipedia.org/wiki/Natsuo_Kirino

https://www.corriere.it/moda/news/17_giugno_15/natsuo-kirino-con-nome-uomo-scrivo-storie-nere-cosi-avverto-donne-giappone-ci-tradisce-8e4c24c2-51e5-11e7-bf53-660c452c585b.shtml



In un futuro lontano l'uomo sapiens ha determinato il suo futuro e creato una nuova subspecie potenziata, geneticamente migliorata e potenzialmente più evoluta. Sembra il sogno transhuman odierno, invece è il cardine del romanzo Il viaggio dello Star Wolf di David Gerrold edito per la prima volta nel 1990. Millecinquecento anni di evoluzione per i "Morethan" ossia i more than human, gli oltre umani, o ultra umani per citare una delle tante serie degli X-Men dei primi anni 2000.

La specie dei Morethan, altezza media quasi 3 metri, ha scelto di amplificare dei tratti genetici fisici molto alfa per cui alcuni di loro possono stare nello spazio senza respirare per minuti, alcuni di loro hanno optato per qualcosa di simile a delle zanne (anche in varietà tiger tipo tigre dai denti a sciabola). L'assetto societario gerarchico ricorda molto quello dei Klingon mentre la morale è sovrapponibile a quella del profitto dei Ferengi. Inoltre applicano Sun Tzu e l'arte della guerra meglio degli umani. Sono asessuati, quindi non disperdono energie in corteggiamenti e rituali di accoppiamento e vengono concepiti in incubatrici dopo selezione genetica. Incarnano il sogno o incubo, a seconda delle prospettive, oggetto già oggi di discussione fra i futurologi. Il romanzo che viene identificato nel sottogenere di fantascienza tecnologica offre diversi spunti di riflessione sull'eugenetica applicata all'efficienza, cosi come illustra bene la psicologia del piccolo gruppo di umani costretti ad essere molto resilienti per sopravvivere.

La trama in breve: L’astronave LS-1187 è un incrociatore interstellare che non ha mai partecipato a una vera e propria battaglia. La sua prima missione (unirsi a un convoglio di mille navi per proteggere i mondi esterni da attacchi a sorpresa) finisce quasi in un disastro e l’astronave e il suo equipaggio si guadagnano una serie di nomignoli tutt’altro che simpatici, di cui “vigliacchi” è il solo ripetibile. Ma tutti, a bordo dell’incrociatore LS-1187, sono ansiosi di lavare la macchia, e per farlo non c’è che un modo: distinguersi in azione contro la Lega dei Morthan, la più pericolosa alleanza extraterrestre che i mondi dell’uomo abbiano dovuto affrontare.
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David Gerrold, nato nel 1944, è l’autore della notissima serie degli Chtorr: La guerra contro gli Chtorr (A Matter for Men, 1983; Urania n. 1194); Il ritorno degli Chtorr (A Day for Damnation, 1984; n. 1218); Il giorno della vendetta (A Rage for Revenge, 1987; nn. 1244-1245) e L’anno del massacro (A Season for Slaughter, 1991; Urania Argento n. 7). The Voyage of the Star Wolf è un romanzo del 1990.

Ritualis - Le cerimonie del Mostro di Firenze è uno strano romanzo: costruito su due romanzi all’apparenza indipendenti, legati fra loro da una cornice che sa tanto film a episodi della Amicus degli anni Settanta. Il cinema in effetti c’entra parecchio con questo libro, vista l’aria che si respira, direi direttamente collegata con quelle oscure pellicole gialle italiane degli anni Settanta, in particolare quei gialli minori, tipo La polizia brancola nel buio o I vizi morbosi di una governante. A queste derive si uniscono le mode di oggi, in particolare quei post-thriller rurali sul genere di True Detective. Eppure, anche questi riferimenti non bastano a spiegare un romanzo che contiene dentro di sé l’essenza del mostro, più di tutti i libri che sono stati scritti sull’argomento (eccetto i volumi labirintici di Filastò, non a caso citato nell’esergo dai due autori): vedo già le mani alzate dei tanti criminologi dilettanti appassionati del caso, li vedo storcere il naso per come la vicenda originale è stata trasfigurata (ad esempio il tutto è ambientato tra la Lunigiana e la pianura Padana, nel vercellese, una sorta di non-luogo della tarda modernità). 

È necessario capire una cosa: Ritualis è un romanzo che lavora sulla cronaca fiorentina e la trasfigura, facendola assurgere a un mito oscuro, orfico, della contemporaneità, al pari della vicenda di Jack lo squartatore, mostro mitologico utilizzato all’interno di format narrativi che lo accoppiano con tutto e tutti. Allo stesso modo, Vacchino e Rosso lavorano di fino su questi brandelli d’incubo e scrivono una sorta di requiem su di noi, ciascuno di noi, sulla tristezza e l’alienazione dell’oggi.

 In definitiva, al di là delle citazioni cinematografiche, e delle tante letterarie (interessante il tentativo di costruire delle equivalenza narrative col thriller che fu, ricorrendo a lunghi prelievi dai testi dei padri fondatori del surrealismo), questo Ritualis mi è parso una sorta di Tenebre argentiana, aggiornata trent’anni dopo, calata all’interno delle macro-strutture totalizzanti, dove l’ideologia della competitività e della prestazione va ormai ben oltre la sfera economica e invade la biologia del corpo, trasformandoci in avatar del consumo eterno, costretti a rincorrere un duro lavoro che può garantirci soltanto una sopravvivenza fittizia, una povertà reale, un’assenza d’identità e una depressione magari curabile in qualche campo di addestramento alla felicità di Amazon. 

Questo è Ritualis e molto altro ancora!
Davide Lupo

A breve in libreria il primo e unico saggio mai scritto in Italia sulle commedie cinematografiche di #Pierino A CURA DI Gordiano Lupi per SensoInverso




Pierino è il bambino terribile delle nostre barzellette, noto anche in America Latina, dove viene chiamato Pepito, ma le caratteristiche non cambiano: irriverenza, volgarità, trasgressione, ilarità e sboccataggine. Noi vogliamo parlare solo del Pierino cinematografico, geniale intuizione di Marino Girolami, Gianfranco Clerici e Vincenzo Mannino che produsse sequel, apocrifi, film per la televisione, progetti mai realizzati, idee bruciate sul nascere e persino alcuni film invisibili, vero e proprio incubo dei fan. I film della serie regolare – interpretata da Alvaro Vitali – sono tre: Pierino contro tutti (1980) e Pierino colpisce ancora (1982), diretti da Marino Girolami, mentre il tardo sequel Pierino torna a scuola (1990) è firmato da Mariano Laurenti. Pierino contro tutti fa registrare tra gli otto e i nove miliardi d’incasso (al tempo il biglietto costava 4.000 lire), un successo clamoroso che produce una ridda di imitazioni prima che Girolami possa girare il sequel autorizzato. 

Chi ha inventato Vitali nei panni di Pierino? Pare che persino Federico Fellini (diresse Vitali sul set di Amarcord) vedesse bene il piccolo attore romano nei panni di Pierino, ma è logico affermare che l’idea fu di Clerici e Girolami, non è lecito sapere quanto sia da imputare al primo e quanto al secondo, ma una cosa è certa: Alvaro Vitali ha le phisique du rôle per interpretare il bambino pestifero delle barzellette. 

Una mise che non cambia mai: cappello azzurro, fiocco rosso, pantaloni corti, scarpe da tennis, maglioncino senza maniche… risata irriverente, battute salaci, ripetitività della mimica e un immancabile epiteto conclusivo: col fischio o senza?

L’AUTORE: Gordiano Lupi (Piombino, 1960). Traduce ispanici, si occupa di cultura cubana e scrive di cinema italiano. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo: una Storia del cinema horror italiano in cinque volumi. I suoi romanzi Calcio e acciaio – Dimenticare Piombino (Acar, 2014), e Miracolo a Piombino - Storia di Marco e di un gabbiano, sono stati presentati al Premio Strega. Per Sensoinverso è uscito il suo saggio Storia della commedia sexy all’italiana. Da Sergio Martino a Nello Rossati. Blog di cinema: La Cineteca di Caino (http://cinetecadicaino.blogspot.it/). Pagine web: www.infol.it/lupi. E-mail per contatti: lupi@infol.it

Autore: Gordiano Lupi
Titolo: PIERINO CONTRO TUTTI. L’eroe popolare delle barzellette: analisi di un fenomeno cinematografico e di costume.
ISBN: 9788867933433
Collana: ItaliaNascosta
Pag. 60
Prezzo: € 12,00
Link sito ufficiale:
Per contatti: 
www.edizionisensoinverso.it - edizionisensoinverso@hotmail.it


Questa è la mia vita. Io e mio marito ci svegliamo alle 7 tutte le mattine, lui si fa la doccia intanto che io preparo il caffè. Quando lui finisce di vestirsi io sono già seduta alla scrivania. Mi saluta con un bacio e va al lavoro, un lavoro che gli fa guadagnare un bel po’ di soldi, ottimi benefit e un mucchio di extra, tipo viaggi, pranzi forniti da società di catering e il rimborso totale delle lezioni di yoga che prendo in palestra a mezzogiorno. È grazie al suo lavoro se posso permettermi di lavorare solo in maniera sporadica, come consulente, in un settore che mi piace.
Ebbene sì, tutto questo è molto volgare, lo so e me ne scuso. Perché in un mondo in cui noi donne ci gingilliamo a chiacchierare delle svariate forme topiarie della ceretta inguinale, l’unico argomento che non affrontiamo mai sono i soldi (o i privilegi). Per quale motivo? Credo sia per via della sindrome di Maria Antonietta: i fortunati e i privilegiati non vogliono che la plebe conosca i dettagli. Dopo tutto, se i comuni mortali si rendessero conto del divario che c’è tra la nostra vita e la loro, insorgerebbero. O, Dio ce ne scampi, smetterebbero di considerarci più speciali, dotati e/o meritevoli di loro.
In questa speciale pantomima, noi scrittori indossiamo due tipi di maschere. Ecco un paio di esempi.
 Un anno e mezzo fa, sono stata a una presentazione in una libreria gremita (siamo nell’ordine delle oltre 300 persone). Lo scrittore era molto famoso, uno splendido autore di nonfiction che ha meritatamente vinto numerosi premi. Si dà il caso che sia anche l’erede di un colossale patrimonio. E stiamo parlando di miliardi. In altre parole, si tratta di un uomo che non ha mai dovuto cercarsi un lavoro, figuriamoci due. Ha diversi figli; lo so perché erano con lui alla presentazione, tutti schierati. Qualcuno ha detto che se li portava appresso durante il tour, insieme a due tate.
Tutto questo non toglie nulla al suo talento. Eppure una tipa – giovane, ingenua ed evidentemente poco informata – gli ha chiesto come aveva potuto permettersi di passare dieci anni sul suo capolavoro, come aveva mantenuto se stesso e la sua famiglia per tutto quel tempo? Lui le ha risposto, in tono serio, che era stata dura ma era andato avanti scrivendo una serie di articoli per alcune riviste. Metà del pubblico, che conosceva la verità, ha soffocato una risatina. Ma l’autore, impassibile, è andato avanti e ha lasciato credere a quella ragazza che una manciata di articoli per The Nation e Salon lo avessero mantenuto per dieci anni a Manhattan.

Secondo esempio. Una presentazione in un’altra città, donna sulla trentina il cui romanzo di esordio è stato recensito sulla prima pagina del New York Times Book Review. Il libro (un romanzo di formazione che ha per protagonisti dei ricchi adolescenti) non mi è piaciuto, ma molte persone che stimo lo hanno trovato eccellente, quindi ha il mio rispetto. L’autrice aveva frequentato una scuola privata della costa orientale, mentre i suoi genitori erano impegnati a occuparsi della loro carriera sulla scena letteraria di New York. I genitori erano persone che scambiavano gli auguri di Natale con William Maxwell e invitavano a cena gli Styron. Lei, l’autrice, era la loro unica, adorata figlia.
Dopo la scuola privata, aveva conseguito due master in scrittura creativa (uno nello Iowa, uno in una università della Ivy League). Il suo primo libro era stato osannato da editor e critici di tutto il paese, molti dei quali la conoscevano fin da quando era bambina. Era diventato un fenomeno ancor prima di approdare sugli scaffali delle librerie. E lei era subito diventata una stella.
Quando una studentessa ha chiesto all’affascinante scrittrice a cosa attribuisse il suo successo, la donna ci ha pensato su un istante e poi ha risposto che aveva lavorato sodo e che aveva ricevuto un’ottima formazione, però, a ben rifletterci, credeva di essere diventata una vera artista perché aveva deciso di non avere figli. Quando si hanno dei bambini, ha spiegato al pubblico composto per lo più da scrittrici nubili convinte, bisogna scegliere tra loro e la scrittura. Meglio restare pure e non lasciarsi distrarre dal pianto di un neonato.
Ero allibita. Volevo scattare in piedi e urlare: “Eh? E Alice Munro? Doris Lessing? Joan Didion?”. Certo, ci sono migliaia di scrittrici straordinarie che sono riuscite a produrre opere d’arte nonostante la maternità. Ma il punto essenziale era che, al di là della qualità del suo libro, quella autrice aveva tratto vantaggio da qualcosa che niente aveva a che fare con le sue decisioni riproduttive. In realtà, era una questione di conoscenze. Conoscenze che aveva da quando era nata.

A mio avviso, quando mentiamo sulle circostanze che ci aiutano a scrivere, pubblicare e in un certo senso ad avere successo, rendiamo un pessimo servizio alla società, qualcosa alla “che mangino brioches”. Non pretendo di essere ricca quanto il primo autore (tutt’altro); né posso vantare le conoscenze della seconda autrice. Non sono neppure famosa come loro… Ma ho un enorme vantaggio sullo scrittore che tira a campare grazie ai sussidi, o che vive da solo e un po’ ai margini, o che deve fare i conti con problemi di salute, o che ha un lavoro a tempo pieno.
Come lo so? Perché un tempo ero povera, lavoravo come un mulo ed ero oberata. E in quel periodo non ho scritto nemmeno un libro. Quando avevo vent’anni ero sposata con un tossicodipendente che cercava con coraggio di restare a galla (ma irrimediabilmente senza successo). Avevamo tre figli, uno dei quali autistico, e per un periodo lungo e sciagurato abbiamo vissuto nell’indigenza. A trent’anni ho divorziato perché era il solo modo per uscire da quel tunnel. Nei dieci anni successivi, ho fatto due lavori e ho cresciuto da sola i miei tre figli, senza assegni di mantenimento né alcun tipo di aiuto da parte del padre.
Quando ho pubblicato il mio primo romanzo, avevo 39 anni, e ce l’avevo fatta solo perché grazie a un lavoretto da insegnante avevo conosciuto alcuni scrittori di rilievo e avevo vissuto per tre mesi dai miei genitori mentre finivo la prima bozza. Dopo aver consegnato quel manoscritto, ho ottenuto un posto come redattrice in una rivista, bello e poco faticoso. Un anno dopo ho conosciuto il mio secondo marito. Per la prima volta in vita mia avevo un compagno degno di questo nome, un uomo su cui potevo contare, che c’era per me e per i nostri figli. La vita è diventata più facile. In un periodo relativamente breve, ho scritto un libro di nonfiction, un secondo romanzo e una trentina di saggi brevi.
Oggi quest’uomo affettuoso che compare alla fine della giornata, mi chiede come procede la scrittura, mi versa del vino e mi porta fuori a cena è il mio “mecenate”. Mi accompagna quando mi sobbarco 800 chilometri per una presentazione di un’ora e un quarto, gestisce le mie finanze, e non si lamenta mai degli anticipi bassi e delle vendite modeste dei miei libri oscuri e difficili.
Sono riuscita a scrivere il mio terzo romanzo in otto mesi tondi tondi. L’ho iniziato mentre eravamo in vacanza. Poi sono andata avanti a scrivere, felice e piuttosto alacremente, perché avevo tempo e mezzi, oltre all’aiuto di mio marito, del mio agente e di un amico redattore pieno di talento. Senza tutti questi privilegi, probabilmente sarei ancora ferma a pagina 52.
Bene, questi sono i vantaggi che ho io. Ora ditemi quali sono i vostri.

Ann Bauer è l’autrice di due romanzi e un memoriale. Ha collaborato a Salon, Elle, The Washington Post, The New York Times. Il suo ultimo libro è “The Forever Marriage” (The Overlook Press, 2012).  
Questa storia è apparsa su Beyond The Margins con il titolo “The Conversation We Never Have” noi la ripubblichiamo qui con il gentile consenso dell’autrice.  
Chiara Manfrinato  (versione italiana)  traduce narrativa contemporanea e valuta romanzi per editori italiani e francesi. A Parigi ha lavorato anche come project manager e social media manager. Adesso che è tornata a vivere a Palermo si è messa a correre. La potete trovare anche su Twitter
 articolo originale in italiano qui:
http://www.abbiamoleprove.com/scrittori-e-soldi/

La postmodernità in “Addio ai confini del mondo” Paolo Cianconi, FrancoAngeli 2011
estratto dal libro su gentile concessione dell'autore per Cinemadonia.it


 Il postmoderno è un entità difficile a definirsi. Gli stessi autori che dichiarano di iscriversi e di riconoscersi nella così detta post-modernità faticano a convergere su una definizione univoca, universalmente accettata e condivisa di questo fenomeno culturale (Dellantuono, Pastore) .
Possiamo parlare di postmodernità come della cultura che si è sviluppata subsoglia dagli anni settanta in poi, ma che è emersa all’attenzione preponderante dagli anni ottanta in poi. Il postmoderno è caratterizzato da un pensiero specifico, dal collasso di quasi tutti i sistemi ideologici e di riferimento del ‘900, dalla inserzione delle tecnologie come terzo asse di intelaiatura della specie umana, insieme al binario biologico e culturale.

Trapasso moderno – La questione della fine della modernità è ancora più ardua della sua definizione. Allo stato attuale non possiamo dire con esattezza quale sia stata la sequenza e quali i suoi protagonisti; tra l’altro non tutti gli autori sono d’accordo che la modernità sia trascorsa o terminata. Il dilemma del confine della modernità sembra, almeno in parte, rimanere aperto: finisce la modernità? A. Touraine (1970), addirittura, non parla di un passaggio in avanti, ma di una retromarcia, di un processo di decostruzione: la de-modernizzazione.

C’è chi sostiene persino che si dovrebbe parlare di una separazione in “due Novecento”. Tuttavia, inevitabilmente qualcosa è accaduto nell’ultimo cinquantennio e non si può trascurarne l’importanza. Il mondo non è assolutamente più assimilabile entro i parametri della modernità classica, industriale, capitalistica, etnica, statale e non ultimo materiale-fisica. 

Numerosi fenomeni socio-tecnologici hanno cambiato la nostra realtà, molti di questi processi trasformativi sono, tra l’altro, tutt’ora in corso. Potremmo così parlare di trasformazioni e conseguenze. Tra le trasformazioni più importanti ricordiamone almeno tre: le ricerche sulle nuove tecnologie, il postcolonialismo e le sue derive, le trasformazioni geopolitiche ed economiche dopo la caduta dei regimi socialisti. La nostra specie è immersa in queste metamorfosi che coinvolgono i gruppi, il nostro modo di vivere e non ultima la nostra stessa biologia.
(per approfondire leggere Addio ai confini del mondo; parte seconda)

Tra le conseguenze delle grandi trasformazioni ricordiamo almeno tre macro fenomeni: la creazione di un nuovo tipo di spazio-tempo (spazi virtual-transnazionali) e l’alterazione di quello consueto in terre vulnerabili; l’emergere ed il sussistere di un nuovo tipo di pensiero tra i sapiens (la cosiddetta fine delle “grandi narrazioni” e sue conseguenze sul pensiero dei postmoderni); il post-umanismo: trasformazione del corpo e della psiche per effetto delle nuove tecnologie.
(per approfondire leggere Addio ai confini del mondo; parte terza

Quanto sopra scritto, naturalmente, non rende conto della portata di questi eventi bio-socio-psicotecnologici cui tutti noi siamo sottoposti. Il mondo intorno a noi è sollecitato, stirato mesmerizzato tra campi di energie, che in parte sono nuovi e in parte riadattati (mutati): se la realtà perde le caratteristiche che conoscevamo e diviene altro. Nondimeno essa è riflessiva, cioè si avvede di quello che gli accade e tenta di conservare una rotta. Le prossime generazioni, e almeno alcune di quelle presenti, dovranno fare i conti con la resa del mondo che conoscevamo, mentre già emerge il nuovo sistema, e navigarci dentro. Mentre i confini collassano, le cose si trasformano.



Recensione a cura di Luigi Starace
Francesca
di Bobby Paunescu – Romania, 96′
v.o. rumeno – s/t italiano, inglese
Monica Birladeanu, Doru Boguta, Teo Corban

Film in concorso nella sezione ORIZZONTI –66. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia

Sinossi:
Francesca è una giovane maestra d’asilo che sogna di emigrare in Italia. Nella speranza di una vita migliore, la giovane è pronta ad affrontare qualunque ostacolo, persino i dubbi e le preoccupazioni delle persone che le sono vicine. Il piano prevede che Mita, il suo ragazzo, la raggiunga in Italia non appena porterà a termine un piccolo affare in cui è coinvolto. Ma le cose prendono una piega infelice, vengono alla luce penose verità e le priorità cambiano.

Togliamo subito la curiosità: si è il film che non può essere ancora distribuito nelle sale italiane per via di un contenzioso legale vertente su alcune frasi offensive rivolte a politici italiani. Noi l’abbiamo visto alla 66esima Mostra del Cinema di Venezia. La distribuzione italiana attende quindi il responso del giudice sull’obbligo o meno di cambiare il doppiaggio italiano. Qualunque sarà la decisione, non cambierà la sostanza delle considerazioni argomento di quest’articolo.

Certo a essere sinceri una prima riflessione diventa proprio questa querelle/querela (o querela versus querelle?): gli italiani 2.0 non sono solo quelli della pizza mandolino e mafia. Non solo, almeno. C’è il sesso, ma questo è noto in Europa dagli anni 60 quando anche le giunoniche ekberg s’immergevano piacevolmente negli acquosi fluidi italiani di cellulosa. Ora c’è anche, si parla naturalmente di stereotipi, anche l’intolleranza e lo sfruttamento. Questa “idea diffusa” scorre lungo tutto il film e diventa uno dei buoni motivi per parlarne. Ebbene occorre ammetterlo: ora anche gli italiani sono odiati all’estero. Il nostro 2.0: perdita di due lunghezze fuori casa, per usare una metafora sportiva.


Non sono tanti i film distribuiti in Italia che parlano del nostro lato oscuro: nell’America di Amelio gli italiani andavano in Albania per intascare gli incentivi e poi non far nulla. Erano gli anni del dopo sbarco a Bari. Ora la leva, sempre economica, dello sfruttamento è l’assistenza domiciliare degli anziani. Sarà davvero solo uno stereotipo? Le statistiche che danno il disinteresse all’integrazione dei giovani italiani al 40% circa, pure?

Francesca, volto già noto agli appassionati di Lost, ha una casa, ha un lavoro e ha una famiglia. Si ha anche un fidanzato focoso che non è italiano, sorry. E’ diversa dai nostri nonni veneti, piemontesi, pugliesi, lucani, siciliani… Non vuole emigrare per mangiare. Vuol farlo per migliorare, evolversi e idealisticamente (ma coerentemente con la sua giovane età) condividere il suo “surplus” con il suo gruppo sociale d’origine. Francesca riuscirà a mettersi in viaggio, ma sarà costretta a fare (o meglio subire) una scelta fra il progresso e gli affetti.




Il film ha un ritmo lento, quasi da fiction, ravvivato da una fotografia quanto più possibile naturalistica. Le ambientazioni quotidiane e le situazioni di vita mostrate fanno pensare al tentativo di una narrazione affine al neorealismo, ma non sarebbe corretto affermarlo perché il messaggio finale, amaro più che tragico è quello del rimanere perché il cuore ti costringe. Non esprit de finesse, tuttavia, ma pragmatismo d’affetti in un tutto scorre di cui però il singolo non riesce a percepire il movimento, cosi il film Francesca inizialmente molto ben comprensibile a chi vive nel Mezzogiorno, termina con la nascita della borghesia rumena. E la borghesia ovunque si vada è sempre la stessa…






Cremeria Letteraria - Presidio del Libro di Lucera parteciperà per il secondo anno alla "Festa dei Lettori", iniziativa giunta quest'anno alla 13^ edizione e organizzata dall'Associazione Presidi del Libro in collaborazione con la Regione Puglia e il MIUR.
Questi gli appuntamenti che si svolgeranno tra il 26 settembre ed il 6 ottobre in Piazza Duomo n. 18 a Lucera.

Martedì 26 settembre ore 20,30 sarà ospite Silvia Bencivelli, giornalista scientifica e conduttrice radiotelevisiva (è stata tra i conduttori di Tutta Salute, in onda ogni mattina su Rai3, e da dieci anni tra le voci di Radio3 Scienza). Scrive per «la Repubblica» e «Le Scienze». Insegna giornalismo scientifico alla Sapienza di Roma. Ha pubblicato diversi libri tra cui "Perché ci piace la musica" ed "È la medicina, bellezza!". "Le mie amiche streghe" è il suo romanzo d'esordio, brillante e originale, sulle nostre superstizioni ma soprattutto sulle nostre fragilità, che ha il coraggio di affrontare ironicamente temi molto dibattuti conquistandoci con la voce irresistibile della sua autrice. Silvia Bencivelli sarà presentata da Maria Grazia De Luca con momenti musicali a cura di Giorgia Bianco.

Mercoledì 27 settembre alle 20,30 sarà la volta di Pietrangelo Buttafuoco, giornalista e scrittore siciliano (attualmente scrive per Il Foglio, con cui ha collaborato fin dalla fondazione, La Repubblica e Il Sole 24 Ore), nonché conduttore e opinionista televisivo per Canale 5 e La7.
Pietrangelo Buttafuoco conversando con Raffaella Gambarelli presenterà "I baci sono definitivi", splendido libro-taccuino in cui
"rubandole" annota le storie della vita dei pendolari e ne fa "cunto". Tutte le mattine il viaggio sotterraneo gli regala una nota per il suo quaderno: incontri straordinari, storie d'innamorati, struggenti malìe, canzoni, dediche ed epiche vissute tra i sedili, i corrimani, le scale mobili e i nodi delle stazioni della metropolitana.

Venerdì 29 settembre a partire dalle 18 sarà la volta del reading "Letti dai balconi" con protagoniste le scuole lucerine: prima i ragazzi della Scuola Media Statale "Dante Alighieri" con un saggio musicale e successivamente con letture, poi proseguite dagli studenti del Liceo "Bonghi-Rosmini" e dell'I.T.E.T. Vittorio Emanuele III di Lucera. 
Le letture saranno declamate dai balconi di Piazza Duomo. 
La serata si concluderà con un monologo di Mario Rucci dal titolo "Cosa sono le nuvole".

Venerdì 6 ottobre alle 20,30 la serata conclusiva vedrà ospite Fabrizio Coscia, scrittore, insegnante, giornalista e critico letterario del quotidiano «Il Mattino» di Napoli, che in dialogo con Alfredo Padalino e accompagnato al pianoforte da Linda Vanacore, presenterà il suo ultimo splendido libro «La bellezza che resta», ovvero una riflessione sull’opera d’arte alla fine di una vita, attraverso una serie di ritratti, da Tolstoj a Freud, da Renoir alla Kahlo, da Cechov a Glenn Gould.

Info e prenotazioni:
3273509326 - 3470850970

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