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Articles by "recensioni"

 

Matsuteia ed E.T.A. Egeskov
Volevo essere un supereroe della Marvel – vol. 1



Un agile volumetto che non pretende di essere esaustivo, solo di raccogliere una serie di curiosità sui supereroi degli universi Marvel - che sono davvero tanti (quasi 1000!) tra buoni e cattivi (persino più affascinanti) -, anche perché ci sono già molti saggi specifici che contengono di tutto sulla Casa delle Idee. 


Sono un fan della Marvel dal 1970, dal giorno in cui fui affascinato in edicola da L’Uomo Ragno contro Lizard, Editoriale Corno, subito dopo essere stato irretito da Mentre la città dorme, protagonista il Devil dal costume giallo e nero di Stan Lee e Wallace Wood. Confesso che leggo Marvel ancora oggi, certo solo i personaggi classici, cose nuove come Venom e Deadpool (che i ragazzi amano) un po’ mi disturbano, riesco ad apprezzare poco persino un grande disegnatore come Todd Mc Farlaine, cresciuto come sono a Ditko e Romita, per me il massimo di modernità restano Kane, Kirby e Buscema. Non solo, mi capita di vivere come un tradimento certe trasposizioni cinematografiche di Spider Man, soprattutto le ultime, mentre ho apprezzato molto il cartone animato di Sara Pichelli con il nuovo Uomo Ragno di colore (Miles Morales). Detto questo veniamo al libro, un piccolo e prezioso manuale che in certi casi dice cose che un appassionato conosce, ma in altri fa compiere vere e proprie scoperte al vecchio lettore. 


Per esempio mi è servito a capire che il nuovo Nick Fury cinematografico è il figlio di quello che leggevo negli anni Settanta. Poi fa piacere rileggere anche quel che sappiamo, trovarlo sistemato in maniera ordinata, come la storia su Spider Man che l’editore Martin Goodman proprio non voleva pubblicare: Chi vuoi che si appassioni alle vicende di un uomo con i poteri di un ragno? Per fortuna ebbe ragione la testardaggine di Stan Lee. 


L’Uomo Ragno conta versioni da romanzo grafico strepitose, vera letteratura a fumetti, oltre a una serie regolare che - tra alti e bassi - resiste in edicola dal 1962. Gli autori del libro raccontano lo sbarco Marvel in Italia, al quale ho assistito in prima persona, negli anni Settanta, prima su Linus (grande Oreste Del Buono, quasi mio compaesano!), poi su Sergente Fury (possiedo molti numeri), infine con la mitica Corno. I due autori non dimenticano le vicende moderne con Star Comics e Play Press, per poi parlare di Panini unica depositaria del verbo Marvel. Il libro analizza la continuity - fenomeno che rende diversa e unica la Marvel -, i cross-over, il primo eroe omosessuale, gli autori che hanno fatto la storia, i problemi con il Comics Code per la troppa attualità dei racconti (droga, razzismo, Vietnam …). 


Una sezione finale è riservata agli attori dei film che hanno impersonato gli eroi Marvel, importante per rendere il tutto più attuale e appetibile per i fan contemporanei. Per quel che mi riguarda resto legato al passato, al profumo di quella carta colorata della Corno, che oggi ritrovo - come una madeleine proustiana - nella collezione da edicola Super Eroi Classic, edita dal Gruppo  Rizzoli in collaborazione con Panini. Per chi ancora non conosce la Marvel questo piccolo libro è una vera e proprio guida virgiliana in un paradiso fantastico che noi ragazzini nati negli anni Sessanta abbiamo vissuto desiderando tutti trasformarci in Super Eroi Marvel!  


Gordiano Lupi


Per acquistare il libro: https://www.amazon.it/dp/B0865BNNV5/


Risultati immagini per le quattro casalinghe di tokyo personaggiLe quattro casalinghe di Tokyo. Note noir, delitti efferati, amori grotteschi, lenzuola tinte di cupe volte notturne e luci al neon riflesse su uno scenario suburbano decadente, di questi essenziali elementi si compone il romanzo, pubblicato in Italia da Neri Pozza nel 2003, il cui titolo originale è Out, scritto da Natsuo Kirino, autrice giapponese, classe 1951.

 In questo romanzo giallo di 700 pagine sono raccolti, sotto lo stesso accogliente tetto, i versanti più oscuri dell'animo umano, partoriti dalle vischiose spire della frustrazione, del risentimento, dell'incomunicabilità e dell'afferimento a ceti e ruoli sociali rigidi e costrittivi, che vedono come ultima e unica via di liberazione il delitto, l'aberrazione e il lavoro notturno.
 In un Giappone contemporaneo, dalla struttura ferrea, quattro donne decidono di acquisire un pezzo della propria libertà economica lavorando come operaie in una fabbrica di pietanze pronte al consumo.

 In quest'ambiente, intriso di vapori caldi del cibo cotto frammisti a sanitizzante industriale, Masako, Yayoi, Kuniko e Yoshie, intrecciano parte delle proprie esistenze, immergendosi, notte dopo notte, in un oceano nero di crimini meticolosamente premeditati e tracciando i propri passi con scie di sangue, difficilmente estinguibili. Altri personaggi enigmatici si avvicendano nell'evolversi incalzante del racconto, i quali minano ulteriormente il concetto di integrità morale e umana, in contrasto con la mistificazione della società modello nipponica, descritta dalle virtù della precisione e dell'esattezza, ma macchiata, di contro, dalla violenza impressa da strutture e sovrastrutture culturali nell'individuo-automa.

 Lo stile fluido, scorrevole rende il complesso narrativo avvincente e la tensione, tipica dei thriller, tiene il lettore col fiato sospeso sino all'ultima pagina.

Una chicca imperdibile per gli amanti del genere, non adatto ai deboli di stomaco.

Recensione di 𝕸𝖆𝖗𝖙𝖎 𝖓𝖆 per Cafe sur la Lune ( https://t.me/joinchat/DO6Q8RD4RWMYuEK6dAz3Ug)


APPROFONDIMENTO SULLA  AUTRICE 


https://it.wikipedia.org/wiki/Natsuo_Kirino

https://www.corriere.it/moda/news/17_giugno_15/natsuo-kirino-con-nome-uomo-scrivo-storie-nere-cosi-avverto-donne-giappone-ci-tradisce-8e4c24c2-51e5-11e7-bf53-660c452c585b.shtml





Recensione per Cinemadonia.it a cura di Carmen Palma  
Le Guerre Stellari tornano al cinema: dopo tanta attesa è finalmente nelle sale Star Wars: The Last Jedi, l’ottavo episodio della celebre saga ideata da George Lucas, il terzo dalla acquisizione della Lucasfilm da parte della Walt Disney Company. La pellicola, diretta da Rian Johnson, è già un successo al botteghino e ha già causato accesi dibattiti tra i fan più accaniti. The Last Jedi è un buon film? Cosa ha funzionato e cosa no?

The Last Jedi fa da seguito a un Episodio VII (Il Risveglio della Forza) che ha diviso molto il pubblico. Il film, diretto da J.J.Abrams, era un prodotto confezionato da un fan devoto, perciò era inevitabile fosse pregno di nostalgia, un regalo, insomma, per tutti i seguaci che dopo tanti anni hanno potuto assistere alle nuove avventure intergalattiche, emulando però eccessivamente la trilogia originale. Scadendo troppo spesso nel citazionismo spinto, il film è sì godibile, ma sicuramente poco audace. La Walt Disney Company poteva esser certa della buona riuscita del film al botteghino, data la grande fanbase, ma ha preferito volare basso, dando agli appassionati qualcosa per cui sorridere e una trama che, nelle dinamiche, ricorda fin troppo le avventure di Luke Skywalker, Leia Organa, Han Solo e Darth Fener.
Il nuovo episodio, invece, riesce a staccarsi maggiormente (ma non del tutto) dalla trilogia degli anni Settanta, a partire dalla regia e dal montaggio.


 Episodio VIII ha una nuova identità cinematografica, più moderna e che non guarda mai al passato, abbinata alla superba fotografia di Steve Yedlin. Una regia di ispirazione nipponica, a giudicare da alcune inquadrature e scelte cromatiche , che rispecchia chiaramente l’idea (malinconica) alla base del film: la fine dei Jedi.

La caratterizzazione dei personaggi, ben presentati in tutte le loro sfaccettature, ricordano in alcuni punti i personaggi originali, ma senza cadere nell’imitazione e soprattutto senza influenzare allo stesso modo la dinamica della storia, ricca di colpi di scena. A cominciare dal suo villain, Kylo Ren: senz’altro un personaggio molto approfondito, che eredita alcune delle peculiarità di Anakin Skywalker (come il suo dissidio interiore tra bene e male), ma che riesce a slegarsene attraverso una scena chiave piuttosto esplicita: il figlio di Han Solo e Leia Organa si disfa della sua maschera, quella che tanto ricorda l’iconica immagine di Darth Fener e che lo stesso Leader Supremo Snoke induce a sbarazzarsene. Non vi è simbologia più forte di questa per rappresentare la diversità tra i due.
Kylo acquisisce,finalmente, una sua vera individualità, grazie alla quale lo spettatore non sente più la mancanza del suo predecessore.
Uno dei maggiori punti di distacco dai precedenti film è l’introduzione di una nuova storyline: quella di Finn e Poe. La trama di questi due personaggi non funziona completamente, le loro avventure non convincono del tutto e non lasciano il segno, ma è frutto di uno sforzo da parte del regista di cambiare completamente rotta dai precedenti film, uno sforzo che va comunque apprezzato. Tra questi due personaggi si inserisce la linea comica che tanto sta facendo discutere: no, di certo non è stata gestita nei migliori dei modi, ma di certo è eccessivo arrecare ad essa il fallimento della pellicola, come molti puristi sparsi per il mondo tendono a fare. Vi sono momenti ironici anche lì dove questi risultano sopra le righe, eccessivo e inutili, di certo la loro mancanza non avrebbe reso il film meno godibile, data la grande presenza di scontri e combattimenti.

C’è una cosa, tuttavia, che rende questo film diverso dagli altri e lo rende apprezzabile. Non solo per i fantastici effetti speciali e il montaggio sonoro che rendono la visione al cinema un’esperienza unica, ma soprattutto perché questo è probabilmente lo Star Wars più “spirituale” di sempre: la forza è al centro di tutto, è protagonista indiscussa, è la causa che muove Rey, Kylo e Luke, i fili della trama sono affidati tutti nelle sue mani. Continua a imperare come unica legge universale anche lì dove i Jedi e la speranza vengono meno.
Tutti gli appassionati di Star Wars ricorderanno la passione con cui maestro Yoda spiegava a Luke e ai suoi allievi l’essenza della Forza, ed è ciò che fa anche Skywalker con la nuova protagonista della saga, eppure non in maniera ugualmente travolgente: le parole e le azioni dell’ultimo Jedi non sono efficaci come lo erano quelle di Yoda, ma danno almeno un’idea generale di cosa questa rappresenti per un guerriero. Un’idea che poteva essere approfondita in due modi: allungando la durata del film, sfiorando così le tre ore, oppure sottraendo la parentesi di Finn e Poe a Canto Bight che, tutto sommato, pur essendo una bella sequenza di azione non lascia totalmente il segno. Soluzioni che, tuttavia, si sarebbero rivelate ugualmente dannose: un film troppo lungo non avrebbe accontentato tutti e avrebbe corso il rischio di diventare noioso, così come non inserire un universo nuovo come quello di Canto Bight avrebbe arrecato grosse critiche a Rian Johnson. Il regista aveva un grosso peso sulla spalle, ossia quello di creare un taglio netto con la saga passata, cosa che J.J.Abrams non è stato in grado di fare: in The Last Jedi l’inserimento di un mondo totalmente nuovo, quello luccicante del gioco d’azzardo dove si nasconde un mondo fatto di soprusi, aiuta Johnson a compiere quel passo in avanti che Abrams non fece. Ed anche a Canto Bight è dato spazio all’interiorità, a quel dualismo buio/luce che resta da sempre un tema molto caro alla saga. Proprio come succede nell’isola dove Luke Skywalker si è rifugiato: sono spazi conflittuali, ambivalenti, entrambi ben rappresentati visivamente e concettualmente. I protagonisti “scendono”( letteralmente) in luoghi che rappresentano l’oscurità e, per metafora, il male. In particolare, la cava dell’isola dove discende Rey ha un aspetto più macabro e introspettivo, la scelta di rappresentare i suoi demoni interiori e i fantasmi del passato attraverso lo stratagemma dello specchio risulta accattivante, pur essendo un classico del cinema.

È un film che si ama o si odia, ma di certo non lascia indifferenti. Johnson ha avuto più audacia di Abrams,ma è andato sul sicuro con la distribuzione equa di scene d’azione e di riflessione, le quali hanno una carica emotiva tale da non risultare mai banali o noiose. Tengono sulle spine esattamente come se si trattasse di un attacco del Primo Ordine alle forze ribelli. Una tensione che rende, di fatto, L’Ultimo Jedi superiore a Il Risveglio della Forza.
Carmen Palma


Commedia nera tratta da un romanzo di William Kempley L'ordinateur des pompes funèbres è il racconto della metamorfosi del colletto bianco grottesco Fred Malon, un impiegato in una compagnia di assicurazioni, che ribalta i paradigmi della propria vita a partire dall'uso dei numeri per riconquistare una passionalità desiderata ma mai ottenuta nella propria vita. Inizia con il calcolare le probabilità di incidenti domestici per pianificare con successo la morte della propria moglie Gloria, vessatoria, denigrante ed emotivamente indisponente.




Nel frattempo Fred diventa l'amante della propria sensuale e disinibita segretaria Charlotte, assistente al "calcolatore" ormai diventato indispensabile: continuerà ad usare il metodo statistico per farsi strada e ottenere prima la morte del suo collega Pierre, per liberare la moglie di lui, Louise, ottima cuoca ma che si rivela senza appetiti e fantasie sessuali: -Ma occorre spogliarsi, non prenderemo freddo? - sono le parole di Louise per il seduttore.

Fred viene costretto dagli eventi e dalla alleanza fra le due donne, che nel frattempo si sono conosciute per caso, alla convivenza con entrambe: un triangolo perfetto di cibo ed eros, almeno dalla prospettiva di Fred, che si autodefinisce un montone e come tale viene "cucinato" dalle due donne fino all'esaurimento nervoso programmato. Prima viene costretto ad eliminare il diretto superiore in ufficio per prenderne il posto con un agire poco prudente agli antipodi con le strategie manipolatorie dei primi due omicidi. Fred si sente un maschio alfa e l'uscita dal ruolo di dipendenza dalle due donne del triangolo decreta la fine del medesimo. Il potere che prende il posto dei bisogni non viene tollerato da Louise e Charlotte.


Sempre più vittima che carnefice Fred finisce per subire il suo medesimo metodo e viene spinto all'esaurimento nervoso e alla soglia del licenziamento dalle attenzioni sempre più ossessive delle due donne, che di fatto costituiscono una coppia ben affiatata capace di invertire i ruoli di donna materna e amante con il successore nel triangolo e collega di Fred. Al montone ormai cotto a puntino non rimane che confessare i suoi omicidi, ma non viene creduto e finisce in manicomio sotto le cure di una giovane psichiatra. Ormai in conflitto con ogni figura femminile e paranoico Fred uccide la psichiatra con la dinamite e rasserenato rientra in casa sua.

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La Guerra dei Mondi di Spielberg vista con una insolita chiave di lettura, una fra le tante: osservare il film come un’allucinazione della bambina protagonista atta a recuperare la figura di un padre lontano e indifferente ? Certo non è il primo film di presunta science-fiction del regista, né la prima volta che parla di famiglia…

articolo originale di Luigi Starace
 

Introduzione
"Volevo rendere questo film simile ad un prisma, in cui ognuno può vedere una sfaccettatura diversa. Quindi ho cercato di renderlo più aperto possibile all'interpretazione [..] ho messo insieme tanti elementi, in modo che ognuno possa avere la sua opinione."
(Spielberg per intervista a La Repubblica )
Gli artisti sono il limite di loro stessi. Dopo l’apice entrano in ridondanza.
Non tutti però. Alcuni smettono mentre fra gli altri, quelli che continuano, i più coscienti ( o prudenti ) realizzano le opere successive come "variazioni sul tema". In buona fede si potrebbe pensare che idea che fa botteghino non si cambia, sarebbe anche semplice in fondo. Inoltre aggiungere qualcosa di originale nelle opere successive sarebbe sempre più difficile perciò il prodotto proposto sostanzialmente non cambia.
Invece con malizia ( analitica ? ) si potrebbe pensare che il core, il nucleo caldo sia ancora scoperto e che l’artista senta ancora il bisogno di esporlo. Per raffreddarlo, consegnarlo, permettere che venga scoperto ?
Non è cosi importante appurarlo invero, o almeno non così primario, urgente come il produrlo.
Tale è l’opera , non quale l’artista.

La science-fiction e il regista
Ma cosa è per Spielberg la fantascienza:
"La fantascienza è una vacanza che mi tiene lontano da tutte le regole della logica narrativa. E' una vacanza dalla fisica di base. Ti permette di lasciarti alle spalle tutte le imposizioni e di volare. Noi, come esseri umani, non possiamo volare e invidiamo gli uccelli per questo. Io invidio Tom Cruise perché pilota aeroplani e jet mentre io non posso farlo, ho troppa paura. Per la maggior parte di noi, la fantascienza è l'unica possibilità di volare veramente. E' per questo che amo tanto questo genere e ci ritorno sempre, perché non dà limiti all'immaginazione. La sfida, in questo caso, è stata quella di far sembrare comunque credibile il film. Sia io che David Copp, lo sceneggiatore, abbiamo fatto in modo di far sembrare i personaggi più reali e normali possibile. Detto questo, la fantascienza rappresenta per i registi una grande fuga." ? (intervista per La Repubblica)
La fantascienza dei film di Spielberg è "magica". Per questo scontenta i puristi del genere e in fondo un po’ annoia. Se ci fosse altro sotto però ?
" A parte i problemi di originalità, a volte le vicende sono tanto forzate e innaturali da sfiorare il ridicolo. Avrebbero dovuto intitolare il film "Una Serie di Fortunati Eventi" (tanto per rifarsi al titolo di un recente film tratto dai libri di Lemony Snickets): l’eroe di turno e la sua famiglia non vengono scalfiti nemmeno dalla più drammatica delle catastrofi. Per una serie di fortunate coincidenze la famiglia Ferrier è l’unica a trovare un’automobile. E si tratta di un'auto magica, visto che riesce magicamente a passare senza intoppi attraverso un fittissimo ingorgo autostradale e riesce a restare illesa anche quando viene parcheggiata di fianco ad un quartiere e ad una abitazione che rimangono quasi completamente distrutti. ". Daniele Toninelli
"La mia vera natura ha voluto che facessi 'E.T.' e 'Incontri ravvicinati del terzo tipo', ma lo spettatore che è in me ha sempre voluto fare 'La Guerra dei Mondi'. Cosa c'è di più elettrizzante di una guerra tra la razza umana e gli extraterrestri?". Spielberg
" Spielberg non si accontenta della fine degli invasori alieni rovinando quel poco che restava da rovinare chiudendo il film con un quadretto di famiglia, viva e vegeta fino alla terza generazione grazie a chissà quale miracolo, che più che portare sollievo fa urlare di rabbia lo spettatore. Già ci siamo dovuti bere il fatto che gli alieni siano venuti sulla Terra senza prendere le più elementari precauzioni chimico-batteriologiche (potevamo bercela ai tempi di Wells, nel 2005 è ben più difficile), ma il lieto fine a tutti i costi, riconciliazione padre/figlio compresa, è stato davvero troppo. " Silvio Sosio

I tempi di narrazione sono quelli di un bambino, lo spazio e gli oggetti propri degli adulti.
Invero Spielberg è ormai un veterano della dissimulazione del significante narrativo: usare la fantascienza o la fantasia per poter parlare in sfondo della famiglia, o meglio del suo modello medio borghese "american way of life" ( un uomo deve fare cio’ che un uomo deve fare, il coraggio ma non a sfondo catartico proveniente dall’amore-incontro-scoperta dei figli o il ritrovsamento del prorpio status di figlio )
To tell the truth molta della produzione western dagli anni 30 ai 50 era imperneata di tematiche e conflitti a forte caratterizzazione edipica. Ciò è tanto vero che il Leone d’oro di quest’anno, a distanza di 50 anni dall’epoca d’oro del far west, l’ha vinto il regista Ang Lee ( lo stesso di Hulk e La tigre e il dragone ) con un film sui cow-boy gay (Brokeback Mountain )
Spielberg trasla dal latte del far west alla via lattea del so far far away. I fuorilegge braccati e agognanti il Messico nascosti dai figli dei braccanti ( e quindi oggetto di sfida verso le pre-generazioni ) per esempio,diventano alieni maldestri che provano a fare una collect call ( chiamata a carico del destinatario ) su Alpha Centauri e affini, capaci tuttavia di realizzare ( garantendo questa volta una gratifica preclusa ai loro omotetici in bianco e nero ) i piccoli sogni rompi monotonia dei figli, come volare con la bici al chiaro di luna . Non è quindi solo un finale meno mortifero a far meritare l’etichetta di ottimista al nostro cineasta. Qualcuno a lui vicino si spingerà anche oltre, ribaltando le posizioni, non solo giustificando la ribellione figliare bensì innalzandola a crociata contro l’abisso, il lato oscuro. Figli cosi forti o impauriti dalla realtà che è possibile accettare ma non assimilare:
- Luke! Io sono tuo padre —
Luke Skywalker, capace di interagire autonomamente con La Forza cosmica, sente che è la verità, che quello è suo padre, ma preferisce lasciarsi cadere dentro un lungo tunnel terminante nel vuoto più che seguirlo. Guerre Stellari: a volte non c’è spazio più lontano della stanza affianco. Dall’ottimismo all’autonomia di un figlio, di una generazione, come si comprende bene dalle parole di Walter Murch ( montatore da tre Oscar ) parlando di Lucas: " Così si disse: okay, se è troppo scomodo politicamente come soggetto attuale, trasferirò la storia altrove e la farò accadere in una galassia lontana nel tempo e nello spazio. I Ribelli sono i nordvietnamiti e L’Impero gli Stati Uniti. E se possiedi la Forza, non importa quanto sei piccolo, puoi sconfiggere il grande potere oppressivo." Guerre Stellari è la versione di George Lucas di Apcalypse Now." ( Il cinema e l’arte del montaggio )
Illuminante, no ?


Una considerazione gruppale
Un film o una serie di film dello stesso regista permettono più che l’etichettatura del singolo artista, una collocazione antropologica del filtrato-lavoro nel background sociale di riferimento. Escludendo la funzione filtro ( alfa in termini bioniani ) del cineasta e focalizzando non sul "perché" ma sul "come" i piani di interpretazione si moltiplicano, consentendo, nella riflessione psicodinamica della interfaccia artista-opera—spettatori, l’emergere dele realtà gruppali inconscie, determinanti, oltre alla maestria talentosa della troupe, il successo del film. Inquadrabile apparentemente in un assunto di base bioniano di attacco-fuga La Guerra dei due mondi non ha riscosso il successo sperato in Europa ( eppure Walsh, lo scrittore del romanzo anti colonialista da cui i film sono stati tratti e i vampiri sono forieri di copyright europeo ). Di fatto, per il modo in cui il nemico è debellato la meta trama è riconducibile all’assunto di base di dipendenza: i nemici sono sconfitti dal sangue infetto che risucchiano e da un elemento invisibile agli uomini, il microbo. Anche la voce narrante in epilogo sentenziante che : " Nessuna morte è vana " mi induce ad affermarlo. C’è di fatto il miracolo ed è ciò che anche lo spettatore in sala mormora umoristicamente.

La filmografia spielberghiana, la ricorrenza.
- Sci-fi:
1977-Incontri ravvicinati del terzo tipo: un gruppo eterogeneo di persone riceve l’incipit da entità extra terrestri per un monte su cui sbarcheranno. Il protagonista abbandona tutto per arrivarci compresi moglie e figli che gli danno dello strambo. Riunirà nel close encounter, tanto da venir adottato dagli alieni e andar via con loro dopo una metamorfosi ad acta
1982-ET: un alieno simpatico viene protetto da un gruppo di ragazzini in bici. Cucciolo perso nella periferia della Via Lattea tra cuccioli della provincia americana saprà meravigliarli e grazie al loro aiuto-protezione tornerà a casa.
2001-AI: dopo millenni solo NY rimane a documentare i nostri giorni e nel profondo di quello che era l’Atlantico gli esseri oblunghi e iridescenti del Futuro trovano il pinocchio-androide addormentato mentre era alla ricerca della mamma-fata turchina. Potranno grazie alla tecnologia fargli rivivere il passato e finalmente potrà festeggiare il suo compleanno "in famiglia" ( film nato da un plot imbastito da Kubrick in cui il finale da mezzora è totalmente spielberghiano ).
2002-Minority Report: Sempre un Tom Cruise tormentato per la perdita della sua famiglia e intento ad evitare che altri soffrano per omicidi futuri ( i futuri criminali sono arrestati nel presente prima che commettano il crimine ).
- Non sci-fi :
1991-Hook: Peter Pan non riesce a staccarsi dal cellulare e il figlio si lascia adottare da Uncino. Per riconquistarlo il satirello volante dovrà tornare a fare scherzi da prete, pardon, da peter-pan, essere accettato dagli altri marmocchi e mostrare il suo coraggio in duello. Non volava perché non fantasticava più. Uncino seduce il figlio di peter grazie al baseball…
1997-Salvate il soldato Rayan: una dozzina di soldati viene mandata in missione (suicida) dietro le linne nemiche per recuperare dopo lo sbarco in Normandia il quarto figlio arruolato, paracadutista disperso, e unico ancora in vita. Mamma America non vuole che una mamma del missisipi pianga ancora. Inutile dire che è l’unico a salvarsi, dalle brutture della guerra e dalla morte.
Insomma condita con salse diverse ma la pietanza dal sapore quasi winnicottiano sembrerebbe esserci e lo stesso regista nell’ intervista già citata ammette che non è lui quello capace di far film "disperati". Sarà vero, ma la miopia c’è…

Contesto famigliare
Che il vero nucleo narrativo del film sia la famiglia, con tutte le difficoltà che comporta metterle in scena qualcuno se n’è accorto :
Spielberg fa leva, esattamente come in molti temevamo, sui sentimenti più epidermici e deteriori, riducendo il tutto a un apologo moraleggiante sulla ritrovata unità familiare di fronte alle avversità. Malgrado in varie interviste dai toni trionfalistici e autocelebrativi il "più grande regista della storia del cinema" (permettetemi di dissentire ) abbia dichiarato il contrario, c’è soltanto un vaghissimo accenno alla verità proclamata da Wells, cioè la lotta per la sopravvivenza di due razze .Massimo Manganelli
Parlare di rapporti familiari per un regista, in genere, non è una passeggiata:
" …I vissuti personali del regista lo inducono ad adottare un atteggiamento prudente.Egli preferisce non proporre una " terapia familiare " che inevitabilmente lo farebbe entrare in risonanza con la propria famiglia d’origine o con quella acquisita. Le problematiche familiari, pur presenti nei vari film, vengono affrontate con l’utilizzo di un piccolo espediente. La famiglia viene smembrata, frazionata in tanti sottosistemi e l’attenzione focalizzata su alcune diadi …" ( L’analista in celluloide, Ignazio Senatore )
Tom Cruise conferma che è una tattica vincente:
" Adoro il modo in cui Steven Spielberg affronta il concetto di famiglia nei suoi film "

La Trama del film
Protagonista del film si chiama Ray Ferrier, lavora come operaio specializzato nei cantieri navali del New Jersey, è un padre separato inaffidabile e un po' sbruffone incaricato di passare con i due figli il classico week-end dove, in ossequio alla legge di Murphy, tutto ciò che può andar male lo farà. Dopo le prime anomalie atmosferiche - miriadi di fulmini che cadono nello stesso posto senza alcun tuono -, il buon Ray s'imbatte con stupefatto terrore in un oggetto non identificato che affiora dal suolo stradale ed inizia a polverizzare la folla circostante senza pietà di sorta. Da quando la minaccia si manifesta in tutta la sua gravità il padre irresponsabile tenterà d'impegnarsi al meglio per far continuare a respirare due rampolli che lo sopportano a malapena, e nel tentativo non si risparmierà nessuna furbata di sorta. L'avanzata inarrestabile dei tentacolari tripodi extraterrestri proseguirà in un'escalation di panico, colorandosi di inedite tinte vampiresche durante l'incontro della famiglia in fuga con un superstite ormai ottenebrato dalla sindrome della resistenza a tutti costi.

L’ allucinazione della bambina, una proposta di lettura
A mio avviso uno dei metatesti possibili de La Guerra dei Mondi è proprio quello del sogno immaginario della bambina figlia del protagonista.
Sulla base della mia esperienza personale in casa famiglia per minori in affido non trovo insolito che la figura paterna assente o indifferente al bambino sia idealizzata fino alla onnipotenza.
Non potrebbe allora accadere che una bambina "ricodifichi" tutto il mondo circostante per poter assimilare e metabolizzare un padre che seppur umano sembri vivere su un pianeta lontano ( come sembra lontano, ma non lo è il New Jersey da Boston ) ?
"Nel bimbo n on c’è disitinzione tra rappresentazione, degli oggetti reali, e affetto: l’affetto si rivela quale primo prodotto mentale, e come tale entra a far parte ,determinante, delle incipienti capacità rappresentazionali. Gli oggetti che il bimbo si rappresenta sono mutevoli e, per noi, confusi: un oggetto può al contempo essere anche un altro. Ciò si evidenzia nel disegno spontaneo dei bambini. Possono disegnare un affare strano che conteporaneamente è un albero, ma anche un cane; e per loro è contemporaneamente tutti e due. Bisogna essere a contatto col bambino, per entrare dentro questo suo mododi vedere: non si può chidergli " Cosa hai disegnato ?", perché allora lui ci risponderà in termini compiacenti alla nostra struttura adulta. (Imbasciati-Fondamenti psicoanalitici della psicologia clinica)
C’è il viaggio alla fine del quale tutto è risolto e il tripode è attaccabile non perché il suo campo di forza è stato forzato o annullato ma perché il suo abitante-manovratore è malato.
Gli Altri di Altrove sono impercettibili come fantasmi e come tali scendono dal cielo, ma ingombranti come angoscie essi emergono dal sottosuolo terrorizzando e dissolvendo letteralmente gli adulti. Eppure diventano totalmente digeribili e assimilabili in sembianze e atteggiamenti ( guardano foto, girano la ruota della bici… ) agli occhi della bambina protagonista.

Gli alieni sembrano avere un atteggiamento persecutorio nei confronti dei due fuggitivi, padre e figlia, soprattutto quando questi si credono al sicuro, rintanati nello scantinato. Di fatti gli alieni tornano più volte ad ispezionare lo scantinato fino a scovare gli umani. ( altra lettura: vengono scoperti dopo che il padre aveva soppresso il suo opposto ed è quindi costretto ad affrontare i mostri più grandi. Non ci riesce e la figlia urlante ( ma è una costante nel film) e tutt’altro che paralizzata dal terrore ( sono proprio queste le scene in cui, dall'inquadratura e dal taglio di ripresa, evincerebbe che è la bambina il fulcro, l’occhio immobile del ciclone ) viene catturata. Al padre non resta che farsi catturare compiendo l’atto catartico del sacrificio, cui seguirà, senza che il neo eroe l’abbia voluto (deus ex machina) la distruzione del tripode, dal suo interno. Gli uomini prigionieri in cesti giganti saranno di nuovo liberi e senza un graffio dopo un volo di 10 metri.
L’unica figura femminile adulta del film è una amica di papà e sembra anche simpatica. Peccato non riesca a seguirlo mentre stanno salendo su un traghetto-salvatore. Non ci riuscirà metà della gente presente sulla riva. Ma la trama non volge al cinismo e anche il battello salvatore viene affondato. Riescono a salvarsi in pochi…Nella scena del battello emerge l’altruismo del fratello maggiore e ancora l’impotenza del padre. Nel nodo narrativo successivo il figlio si separa dal padre per unirsi all’esercito in lotta. E’ una separazione strana per i canoni hollywoodiani: non c’è ne investitura ne attrito. L’addio viene interrotto dalle urla della bimba, raccolta da altri e quasi potata via per la distrazione paterna, o per le eccessive( ? ) attenzioni date al figlio. Non c’è addio fra i fratelli, ne la bimba accennerà alla cosa in seguito.
Le scene ambientate nello scantinato a detta di diversi critici sono accessorie e non necessarie al plot, ma come da studi sugli effetti del cinema negli spettatori ( schermi violenti- Imbasciati ) le parti considerate più " brutte " sono anche le più ricche di spunti al dibattito. Ecco dunque che osservando ancora questa sequenza si nota che la bambina è l’unica a vedere le sembianze degli alieni che scendono giù in perlustrazione: il padre e lo sconosciuto lottano, in silenzio fra loro per un fucile. Il viso della bambina viene inquadrato in primo piano: l’occhio che spia da una fessura gli Altri è illuminato, quello rivolto ai due adulti che lottano è in ombra. E’ libera di vedere ora, mentre per tutto il film il padre le aveva vietato di guardare sia i tripodi giganti sia la distruzione intorno ripetendole " tieni gli occhi su di me" . La bimba osserva gli alieni curiosare maldestramente fra foto di famiglia e biciclette : nessun orrore ( gli alieni hanno abitudini vampiresche ) e il clima di suspence si stempera in Gianni e Pinotto.
Per un cinefilo, ma non solo, un tale cambio di climax è inaccettabile. Per un bimbo, no…
Per tutto il film il padre si oppone alla violenza mostrata : prima lascia cadere la pistola per poter riavere la figlia bloccata in macchina, poi cerca in tutti i modi di evitare che il figlio maggiore vada a combattere i mostri, di seguito blocca lo sconosciuto prima che spari ad un alieno. Risulta paradossale allora che decida di strangolare lo sconosciuto perché rumoroso quando basterebbe imbavagliarlo. Lui non vorrebbe ma è per "salvare la bambina" ( gli alieni sono ipersensibili ai suoni e possono rintracciarli facilmente ).
Chiude gli occhi e tappa le orecchie della piccola, va nell’altra stanza e ritorna dopo un paio di minuti. Lo sconosciuto,guerrafondaio paranoico e primitivo , l’opposto del padre, quello che si era anche offerto di badare alla bimba se il genitore fosse perito non c’è più, non compare più. Possono dormire tranquilli ora. Ma un grosso occhio spia alieno li scova comunque: al padre ora tocca affrontare , dopo il suo opposto nello scantinato, il grande tripode, vampiro e persecutore, in scalfibile…in campo aperto. Un altro "se stesso" da affrontare ?
Dopo la distruzione fortuita ( una serie di granate innescate senza la volontà del padre ) del tripode i due raggiungono sani e salvi la città in cui vive la madre. Termina il viaggio: la città è sicura, non è stata distrutta pur essendo invasa.
E’ qui che un ‘altra invisibilità si concretizza: i batteri ammorbano gli alieni, ma questo si scoprirà solo dopo e solo grazie all’epilogo del narratore. Il padre ha in braccio la figlia, è protettore ormai, non più indifferente a lei e alle sue allergie. E’ lui a scoprire e indicare ai militari che il campo di forza introno ai mostri di acciaio non c’è più. Migliaia di militari guardinghi ma non sagaci, si direbbe. E’ fatta i mostri sono attaccabili. E’ vittoria. E’ anche felicità perché tutti sono vivi e raccolti nella casa materna, anche il fratello maggiore scampato ad un’esplosione devastante.
La grande invasione, la grande paura capace di muovere — commuovere gli adulti…
Solitudine più isolamento uguale allucinazione ?

Luigi Starace

Recensione a cura di Luigi Starace
Francesca
di Bobby Paunescu – Romania, 96′
v.o. rumeno – s/t italiano, inglese
Monica Birladeanu, Doru Boguta, Teo Corban

Film in concorso nella sezione ORIZZONTI –66. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia

Sinossi:
Francesca è una giovane maestra d’asilo che sogna di emigrare in Italia. Nella speranza di una vita migliore, la giovane è pronta ad affrontare qualunque ostacolo, persino i dubbi e le preoccupazioni delle persone che le sono vicine. Il piano prevede che Mita, il suo ragazzo, la raggiunga in Italia non appena porterà a termine un piccolo affare in cui è coinvolto. Ma le cose prendono una piega infelice, vengono alla luce penose verità e le priorità cambiano.

Togliamo subito la curiosità: si è il film che non può essere ancora distribuito nelle sale italiane per via di un contenzioso legale vertente su alcune frasi offensive rivolte a politici italiani. Noi l’abbiamo visto alla 66esima Mostra del Cinema di Venezia. La distribuzione italiana attende quindi il responso del giudice sull’obbligo o meno di cambiare il doppiaggio italiano. Qualunque sarà la decisione, non cambierà la sostanza delle considerazioni argomento di quest’articolo.

Certo a essere sinceri una prima riflessione diventa proprio questa querelle/querela (o querela versus querelle?): gli italiani 2.0 non sono solo quelli della pizza mandolino e mafia. Non solo, almeno. C’è il sesso, ma questo è noto in Europa dagli anni 60 quando anche le giunoniche ekberg s’immergevano piacevolmente negli acquosi fluidi italiani di cellulosa. Ora c’è anche, si parla naturalmente di stereotipi, anche l’intolleranza e lo sfruttamento. Questa “idea diffusa” scorre lungo tutto il film e diventa uno dei buoni motivi per parlarne. Ebbene occorre ammetterlo: ora anche gli italiani sono odiati all’estero. Il nostro 2.0: perdita di due lunghezze fuori casa, per usare una metafora sportiva.


Non sono tanti i film distribuiti in Italia che parlano del nostro lato oscuro: nell’America di Amelio gli italiani andavano in Albania per intascare gli incentivi e poi non far nulla. Erano gli anni del dopo sbarco a Bari. Ora la leva, sempre economica, dello sfruttamento è l’assistenza domiciliare degli anziani. Sarà davvero solo uno stereotipo? Le statistiche che danno il disinteresse all’integrazione dei giovani italiani al 40% circa, pure?

Francesca, volto già noto agli appassionati di Lost, ha una casa, ha un lavoro e ha una famiglia. Si ha anche un fidanzato focoso che non è italiano, sorry. E’ diversa dai nostri nonni veneti, piemontesi, pugliesi, lucani, siciliani… Non vuole emigrare per mangiare. Vuol farlo per migliorare, evolversi e idealisticamente (ma coerentemente con la sua giovane età) condividere il suo “surplus” con il suo gruppo sociale d’origine. Francesca riuscirà a mettersi in viaggio, ma sarà costretta a fare (o meglio subire) una scelta fra il progresso e gli affetti.




Il film ha un ritmo lento, quasi da fiction, ravvivato da una fotografia quanto più possibile naturalistica. Le ambientazioni quotidiane e le situazioni di vita mostrate fanno pensare al tentativo di una narrazione affine al neorealismo, ma non sarebbe corretto affermarlo perché il messaggio finale, amaro più che tragico è quello del rimanere perché il cuore ti costringe. Non esprit de finesse, tuttavia, ma pragmatismo d’affetti in un tutto scorre di cui però il singolo non riesce a percepire il movimento, cosi il film Francesca inizialmente molto ben comprensibile a chi vive nel Mezzogiorno, termina con la nascita della borghesia rumena. E la borghesia ovunque si vada è sempre la stessa…





30 settembre 2017 Macbeth di Daniele Salvo al Silvano Toti Globe Theatre Roma
Recensione a cura di Francesco Grillo

Daniele Salvo ha portato con grande successo, un intenso, carnale ed oscurissimo Macbeth al Globe Theatre di Roma.
In un'opera complessa e recitata con forza si stagliano almeno 2-3 scene assolutamente straordinarie. La scena dell'ultima cena di Re Duncan a Inverness con il suo anfitrione-traditore ed i suoi nobili mi è parsa geniale, di una potenza squassante, ed anche frutto di profonda cultura storico-religiosa sulla sacralità del re medioevale - rex sacrorum, re giusto visto come figura del Cristo Re e come Lui vittima sacrificale .. rilettura di smagliante forza iconica e culturale posta tra il re sacrificato di Frazer ed il Cenacolo leonardiano.
Ammalianti le 3 Streghe/Norne/Moire/Parche giocate in un acuto contrasto tra morte e vita con una delle 3 in avanzato stato di gravidanza: la loro opera innominabile divenuta un parto da obitorio di un cadaverico e misterioso androgino. Notevole infine la tensione della con il fantasma di Banquo (un ottimo Francesco Biscione roco, carnale, denso). Potentissima la Lady Macbeth di Melania Giglio: non fredda calcolatrice ma eroticamente invasata, dionisiaca e demonica, sensuale ed insieme mascolina, con naturalezza prima aspra ed imperiosa e poi folle.
#Macbeth pieno di spiriti demoniaci cornuti, animaleschi esseri stregoneschi sorti dall'inconscio o dal sovrannaturale -difficile distinguerli nell'inferno delle coscienze dei protagonisti. Molto evidenti, nelle presenze stregonesche ricorrenti, i ricordi di Riterna di Bergman; una presenza di temi e stilemi visionaria ieratica e potente.
Le tre streghe-Norne che sembravano ripresentarsi come tre satanici officianti bergmaniani, poi come 3 camerieri animaleschi in una cena da horror scandinavo contemporaneo. Salvo pare attento al pop ed al postmoderno, che può conpiere irruzioni anche nei classici; linguaggi necessari al contatto con il pubblico di oggi. Ed era bello vedere il Globe pieno di giovani strappati per qualche ora alla schiavitù dei cellulari appassionarsi alle vicende di un aitante ed intenso Macbeth che poteva ricordare loro un cupo capovolgimento di un Re del Nord, Rob Stark, di Game of thrones, uno di quegli Stark uccisi dal loro idealismo.
Il tutto è stato un tuffo nell'oscurità del mondo, nel Nero. Solamente nero. Un Macbeth (Giacinto Palmarini costantemente illuminato da luce nera torrenziale.
Questa oscurità (rotta solo dal buon re Duncan morituro) pare quasi una citazione per contrasto dell'altrettanto maledetto Macbeth di Polanski, che giocava invece spesso sui toni del bianco di una purezza sacrale e pronta a corrompersi.
Una "Opera al nero" sovrannaturale, buia e potente che conferma le grandissime qualità del regista.

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