Questa è la mia vita. Io e mio marito ci svegliamo alle 7 tutte le mattine, lui si fa la doccia intanto che io preparo il caffè. Quando lui finisce di vestirsi io sono già seduta alla scrivania. Mi saluta con un bacio e va al lavoro, un lavoro che gli fa guadagnare un bel po’ di soldi, ottimi benefit e un mucchio di extra, tipo viaggi, pranzi forniti da società di catering e il rimborso totale delle lezioni di yoga che prendo in palestra a mezzogiorno. È grazie al suo lavoro se posso permettermi di lavorare solo in maniera sporadica, come consulente, in un settore che mi piace.
Ebbene sì, tutto questo è molto volgare, lo so e me ne scuso. Perché in un mondo in cui noi donne ci gingilliamo a chiacchierare delle svariate forme topiarie della ceretta inguinale, l’unico argomento che non affrontiamo mai sono i soldi (o i privilegi). Per quale motivo? Credo sia per via della sindrome di Maria Antonietta: i fortunati e i privilegiati non vogliono che la plebe conosca i dettagli. Dopo tutto, se i comuni mortali si rendessero conto del divario che c’è tra la nostra vita e la loro, insorgerebbero. O, Dio ce ne scampi, smetterebbero di considerarci più speciali, dotati e/o meritevoli di loro.
In questa speciale pantomima, noi scrittori indossiamo due tipi di maschere. Ecco un paio di esempi.
Un anno e mezzo fa, sono stata a una presentazione in una libreria gremita (siamo nell’ordine delle oltre 300 persone). Lo scrittore era molto famoso, uno splendido autore di nonfiction che ha meritatamente vinto numerosi premi. Si dà il caso che sia anche l’erede di un colossale patrimonio. E stiamo parlando di miliardi. In altre parole, si tratta di un uomo che non ha mai dovuto cercarsi un lavoro, figuriamoci due. Ha diversi figli; lo so perché erano con lui alla presentazione, tutti schierati. Qualcuno ha detto che se li portava appresso durante il tour, insieme a due tate.
Tutto questo non toglie nulla al suo talento. Eppure una tipa – giovane, ingenua ed evidentemente poco informata – gli ha chiesto come aveva potuto permettersi di passare dieci anni sul suo capolavoro, come aveva mantenuto se stesso e la sua famiglia per tutto quel tempo? Lui le ha risposto, in tono serio, che era stata dura ma era andato avanti scrivendo una serie di articoli per alcune riviste. Metà del pubblico, che conosceva la verità, ha soffocato una risatina. Ma l’autore, impassibile, è andato avanti e ha lasciato credere a quella ragazza che una manciata di articoli per The Nation e Salon lo avessero mantenuto per dieci anni a Manhattan.
Secondo esempio. Una presentazione in un’altra città, donna sulla trentina il cui romanzo di esordio è stato recensito sulla prima pagina del New York Times Book Review. Il libro (un romanzo di formazione che ha per protagonisti dei ricchi adolescenti) non mi è piaciuto, ma molte persone che stimo lo hanno trovato eccellente, quindi ha il mio rispetto. L’autrice aveva frequentato una scuola privata della costa orientale, mentre i suoi genitori erano impegnati a occuparsi della loro carriera sulla scena letteraria di New York. I genitori erano persone che scambiavano gli auguri di Natale con William Maxwell e invitavano a cena gli Styron. Lei, l’autrice, era la loro unica, adorata figlia.
Dopo la scuola privata, aveva conseguito due master in scrittura creativa (uno nello Iowa, uno in una università della Ivy League). Il suo primo libro era stato osannato da editor e critici di tutto il paese, molti dei quali la conoscevano fin da quando era bambina. Era diventato un fenomeno ancor prima di approdare sugli scaffali delle librerie. E lei era subito diventata una stella.
Quando una studentessa ha chiesto all’affascinante scrittrice a cosa attribuisse il suo successo, la donna ci ha pensato su un istante e poi ha risposto che aveva lavorato sodo e che aveva ricevuto un’ottima formazione, però, a ben rifletterci, credeva di essere diventata una vera artista perché aveva deciso di non avere figli. Quando si hanno dei bambini, ha spiegato al pubblico composto per lo più da scrittrici nubili convinte, bisogna scegliere tra loro e la scrittura. Meglio restare pure e non lasciarsi distrarre dal pianto di un neonato.
Ero allibita. Volevo scattare in piedi e urlare: “Eh? E Alice Munro? Doris Lessing? Joan Didion?”. Certo, ci sono migliaia di scrittrici straordinarie che sono riuscite a produrre opere d’arte nonostante la maternità. Ma il punto essenziale era che, al di là della qualità del suo libro, quella autrice aveva tratto vantaggio da qualcosa che niente aveva a che fare con le sue decisioni riproduttive. In realtà, era una questione di conoscenze. Conoscenze che aveva da quando era nata.
A mio avviso, quando mentiamo sulle circostanze che ci aiutano a scrivere, pubblicare e in un certo senso ad avere successo, rendiamo un pessimo servizio alla società, qualcosa alla “che mangino brioches”. Non pretendo di essere ricca quanto il primo autore (tutt’altro); né posso vantare le conoscenze della seconda autrice. Non sono neppure famosa come loro… Ma ho un enorme vantaggio sullo scrittore che tira a campare grazie ai sussidi, o che vive da solo e un po’ ai margini, o che deve fare i conti con problemi di salute, o che ha un lavoro a tempo pieno.
Come lo so? Perché un tempo ero povera, lavoravo come un mulo ed ero oberata. E in quel periodo non ho scritto nemmeno un libro. Quando avevo vent’anni ero sposata con un tossicodipendente che cercava con coraggio di restare a galla (ma irrimediabilmente senza successo). Avevamo tre figli, uno dei quali autistico, e per un periodo lungo e sciagurato abbiamo vissuto nell’indigenza. A trent’anni ho divorziato perché era il solo modo per uscire da quel tunnel. Nei dieci anni successivi, ho fatto due lavori e ho cresciuto da sola i miei tre figli, senza assegni di mantenimento né alcun tipo di aiuto da parte del padre.
Quando ho pubblicato il mio primo romanzo, avevo 39 anni, e ce l’avevo fatta solo perché grazie a un lavoretto da insegnante avevo conosciuto alcuni scrittori di rilievo e avevo vissuto per tre mesi dai miei genitori mentre finivo la prima bozza. Dopo aver consegnato quel manoscritto, ho ottenuto un posto come redattrice in una rivista, bello e poco faticoso. Un anno dopo ho conosciuto il mio secondo marito. Per la prima volta in vita mia avevo un compagno degno di questo nome, un uomo su cui potevo contare, che c’era per me e per i nostri figli. La vita è diventata più facile. In un periodo relativamente breve, ho scritto un libro di nonfiction, un secondo romanzo e una trentina di saggi brevi.
Oggi quest’uomo affettuoso che compare alla fine della giornata, mi chiede come procede la scrittura, mi versa del vino e mi porta fuori a cena è il mio “mecenate”. Mi accompagna quando mi sobbarco 800 chilometri per una presentazione di un’ora e un quarto, gestisce le mie finanze, e non si lamenta mai degli anticipi bassi e delle vendite modeste dei miei libri oscuri e difficili.
Sono riuscita a scrivere il mio terzo romanzo in otto mesi tondi tondi. L’ho iniziato mentre eravamo in vacanza. Poi sono andata avanti a scrivere, felice e piuttosto alacremente, perché avevo tempo e mezzi, oltre all’aiuto di mio marito, del mio agente e di un amico redattore pieno di talento. Senza tutti questi privilegi, probabilmente sarei ancora ferma a pagina 52.
Bene, questi sono i vantaggi che ho io. Ora ditemi quali sono i vostri.
Ann Bauer è l’autrice di due romanzi e un memoriale. Ha collaborato a Salon, Elle, The Washington Post, The New York Times. Il suo ultimo libro è “The Forever Marriage” (The Overlook Press, 2012).
Questa storia è apparsa su Beyond The Margins con il titolo “The Conversation We Never Have” noi la ripubblichiamo qui con il gentile consenso dell’autrice.
Chiara Manfrinato (versione italiana) traduce narrativa contemporanea e valuta romanzi per editori italiani e francesi. A Parigi ha lavorato anche come project manager e social media manager. Adesso che è tornata a vivere a Palermo si è messa a correre. La potete trovare anche su Twitter.
articolo originale in italiano qui:
http://www.abbiamoleprove.com/scrittori-e-soldi/
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