Parlare di Cinema Arti Visive e Culture Indipendenti

ottobre 2017

Ritualis - Le cerimonie del Mostro di Firenze è uno strano romanzo: costruito su due romanzi all’apparenza indipendenti, legati fra loro da una cornice che sa tanto film a episodi della Amicus degli anni Settanta. Il cinema in effetti c’entra parecchio con questo libro, vista l’aria che si respira, direi direttamente collegata con quelle oscure pellicole gialle italiane degli anni Settanta, in particolare quei gialli minori, tipo La polizia brancola nel buio o I vizi morbosi di una governante. A queste derive si uniscono le mode di oggi, in particolare quei post-thriller rurali sul genere di True Detective. Eppure, anche questi riferimenti non bastano a spiegare un romanzo che contiene dentro di sé l’essenza del mostro, più di tutti i libri che sono stati scritti sull’argomento (eccetto i volumi labirintici di Filastò, non a caso citato nell’esergo dai due autori): vedo già le mani alzate dei tanti criminologi dilettanti appassionati del caso, li vedo storcere il naso per come la vicenda originale è stata trasfigurata (ad esempio il tutto è ambientato tra la Lunigiana e la pianura Padana, nel vercellese, una sorta di non-luogo della tarda modernità). 

È necessario capire una cosa: Ritualis è un romanzo che lavora sulla cronaca fiorentina e la trasfigura, facendola assurgere a un mito oscuro, orfico, della contemporaneità, al pari della vicenda di Jack lo squartatore, mostro mitologico utilizzato all’interno di format narrativi che lo accoppiano con tutto e tutti. Allo stesso modo, Vacchino e Rosso lavorano di fino su questi brandelli d’incubo e scrivono una sorta di requiem su di noi, ciascuno di noi, sulla tristezza e l’alienazione dell’oggi.

 In definitiva, al di là delle citazioni cinematografiche, e delle tante letterarie (interessante il tentativo di costruire delle equivalenza narrative col thriller che fu, ricorrendo a lunghi prelievi dai testi dei padri fondatori del surrealismo), questo Ritualis mi è parso una sorta di Tenebre argentiana, aggiornata trent’anni dopo, calata all’interno delle macro-strutture totalizzanti, dove l’ideologia della competitività e della prestazione va ormai ben oltre la sfera economica e invade la biologia del corpo, trasformandoci in avatar del consumo eterno, costretti a rincorrere un duro lavoro che può garantirci soltanto una sopravvivenza fittizia, una povertà reale, un’assenza d’identità e una depressione magari curabile in qualche campo di addestramento alla felicità di Amazon. 

Questo è Ritualis e molto altro ancora!
Davide Lupo

A breve in libreria il primo e unico saggio mai scritto in Italia sulle commedie cinematografiche di #Pierino A CURA DI Gordiano Lupi per SensoInverso




Pierino è il bambino terribile delle nostre barzellette, noto anche in America Latina, dove viene chiamato Pepito, ma le caratteristiche non cambiano: irriverenza, volgarità, trasgressione, ilarità e sboccataggine. Noi vogliamo parlare solo del Pierino cinematografico, geniale intuizione di Marino Girolami, Gianfranco Clerici e Vincenzo Mannino che produsse sequel, apocrifi, film per la televisione, progetti mai realizzati, idee bruciate sul nascere e persino alcuni film invisibili, vero e proprio incubo dei fan. I film della serie regolare – interpretata da Alvaro Vitali – sono tre: Pierino contro tutti (1980) e Pierino colpisce ancora (1982), diretti da Marino Girolami, mentre il tardo sequel Pierino torna a scuola (1990) è firmato da Mariano Laurenti. Pierino contro tutti fa registrare tra gli otto e i nove miliardi d’incasso (al tempo il biglietto costava 4.000 lire), un successo clamoroso che produce una ridda di imitazioni prima che Girolami possa girare il sequel autorizzato. 

Chi ha inventato Vitali nei panni di Pierino? Pare che persino Federico Fellini (diresse Vitali sul set di Amarcord) vedesse bene il piccolo attore romano nei panni di Pierino, ma è logico affermare che l’idea fu di Clerici e Girolami, non è lecito sapere quanto sia da imputare al primo e quanto al secondo, ma una cosa è certa: Alvaro Vitali ha le phisique du rôle per interpretare il bambino pestifero delle barzellette. 

Una mise che non cambia mai: cappello azzurro, fiocco rosso, pantaloni corti, scarpe da tennis, maglioncino senza maniche… risata irriverente, battute salaci, ripetitività della mimica e un immancabile epiteto conclusivo: col fischio o senza?

L’AUTORE: Gordiano Lupi (Piombino, 1960). Traduce ispanici, si occupa di cultura cubana e scrive di cinema italiano. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo: una Storia del cinema horror italiano in cinque volumi. I suoi romanzi Calcio e acciaio – Dimenticare Piombino (Acar, 2014), e Miracolo a Piombino - Storia di Marco e di un gabbiano, sono stati presentati al Premio Strega. Per Sensoinverso è uscito il suo saggio Storia della commedia sexy all’italiana. Da Sergio Martino a Nello Rossati. Blog di cinema: La Cineteca di Caino (http://cinetecadicaino.blogspot.it/). Pagine web: www.infol.it/lupi. E-mail per contatti: lupi@infol.it

Autore: Gordiano Lupi
Titolo: PIERINO CONTRO TUTTI. L’eroe popolare delle barzellette: analisi di un fenomeno cinematografico e di costume.
ISBN: 9788867933433
Collana: ItaliaNascosta
Pag. 60
Prezzo: € 12,00
Link sito ufficiale:
Per contatti: 
www.edizionisensoinverso.it - edizionisensoinverso@hotmail.it


Questa è la mia vita. Io e mio marito ci svegliamo alle 7 tutte le mattine, lui si fa la doccia intanto che io preparo il caffè. Quando lui finisce di vestirsi io sono già seduta alla scrivania. Mi saluta con un bacio e va al lavoro, un lavoro che gli fa guadagnare un bel po’ di soldi, ottimi benefit e un mucchio di extra, tipo viaggi, pranzi forniti da società di catering e il rimborso totale delle lezioni di yoga che prendo in palestra a mezzogiorno. È grazie al suo lavoro se posso permettermi di lavorare solo in maniera sporadica, come consulente, in un settore che mi piace.
Ebbene sì, tutto questo è molto volgare, lo so e me ne scuso. Perché in un mondo in cui noi donne ci gingilliamo a chiacchierare delle svariate forme topiarie della ceretta inguinale, l’unico argomento che non affrontiamo mai sono i soldi (o i privilegi). Per quale motivo? Credo sia per via della sindrome di Maria Antonietta: i fortunati e i privilegiati non vogliono che la plebe conosca i dettagli. Dopo tutto, se i comuni mortali si rendessero conto del divario che c’è tra la nostra vita e la loro, insorgerebbero. O, Dio ce ne scampi, smetterebbero di considerarci più speciali, dotati e/o meritevoli di loro.
In questa speciale pantomima, noi scrittori indossiamo due tipi di maschere. Ecco un paio di esempi.
 Un anno e mezzo fa, sono stata a una presentazione in una libreria gremita (siamo nell’ordine delle oltre 300 persone). Lo scrittore era molto famoso, uno splendido autore di nonfiction che ha meritatamente vinto numerosi premi. Si dà il caso che sia anche l’erede di un colossale patrimonio. E stiamo parlando di miliardi. In altre parole, si tratta di un uomo che non ha mai dovuto cercarsi un lavoro, figuriamoci due. Ha diversi figli; lo so perché erano con lui alla presentazione, tutti schierati. Qualcuno ha detto che se li portava appresso durante il tour, insieme a due tate.
Tutto questo non toglie nulla al suo talento. Eppure una tipa – giovane, ingenua ed evidentemente poco informata – gli ha chiesto come aveva potuto permettersi di passare dieci anni sul suo capolavoro, come aveva mantenuto se stesso e la sua famiglia per tutto quel tempo? Lui le ha risposto, in tono serio, che era stata dura ma era andato avanti scrivendo una serie di articoli per alcune riviste. Metà del pubblico, che conosceva la verità, ha soffocato una risatina. Ma l’autore, impassibile, è andato avanti e ha lasciato credere a quella ragazza che una manciata di articoli per The Nation e Salon lo avessero mantenuto per dieci anni a Manhattan.

Secondo esempio. Una presentazione in un’altra città, donna sulla trentina il cui romanzo di esordio è stato recensito sulla prima pagina del New York Times Book Review. Il libro (un romanzo di formazione che ha per protagonisti dei ricchi adolescenti) non mi è piaciuto, ma molte persone che stimo lo hanno trovato eccellente, quindi ha il mio rispetto. L’autrice aveva frequentato una scuola privata della costa orientale, mentre i suoi genitori erano impegnati a occuparsi della loro carriera sulla scena letteraria di New York. I genitori erano persone che scambiavano gli auguri di Natale con William Maxwell e invitavano a cena gli Styron. Lei, l’autrice, era la loro unica, adorata figlia.
Dopo la scuola privata, aveva conseguito due master in scrittura creativa (uno nello Iowa, uno in una università della Ivy League). Il suo primo libro era stato osannato da editor e critici di tutto il paese, molti dei quali la conoscevano fin da quando era bambina. Era diventato un fenomeno ancor prima di approdare sugli scaffali delle librerie. E lei era subito diventata una stella.
Quando una studentessa ha chiesto all’affascinante scrittrice a cosa attribuisse il suo successo, la donna ci ha pensato su un istante e poi ha risposto che aveva lavorato sodo e che aveva ricevuto un’ottima formazione, però, a ben rifletterci, credeva di essere diventata una vera artista perché aveva deciso di non avere figli. Quando si hanno dei bambini, ha spiegato al pubblico composto per lo più da scrittrici nubili convinte, bisogna scegliere tra loro e la scrittura. Meglio restare pure e non lasciarsi distrarre dal pianto di un neonato.
Ero allibita. Volevo scattare in piedi e urlare: “Eh? E Alice Munro? Doris Lessing? Joan Didion?”. Certo, ci sono migliaia di scrittrici straordinarie che sono riuscite a produrre opere d’arte nonostante la maternità. Ma il punto essenziale era che, al di là della qualità del suo libro, quella autrice aveva tratto vantaggio da qualcosa che niente aveva a che fare con le sue decisioni riproduttive. In realtà, era una questione di conoscenze. Conoscenze che aveva da quando era nata.

A mio avviso, quando mentiamo sulle circostanze che ci aiutano a scrivere, pubblicare e in un certo senso ad avere successo, rendiamo un pessimo servizio alla società, qualcosa alla “che mangino brioches”. Non pretendo di essere ricca quanto il primo autore (tutt’altro); né posso vantare le conoscenze della seconda autrice. Non sono neppure famosa come loro… Ma ho un enorme vantaggio sullo scrittore che tira a campare grazie ai sussidi, o che vive da solo e un po’ ai margini, o che deve fare i conti con problemi di salute, o che ha un lavoro a tempo pieno.
Come lo so? Perché un tempo ero povera, lavoravo come un mulo ed ero oberata. E in quel periodo non ho scritto nemmeno un libro. Quando avevo vent’anni ero sposata con un tossicodipendente che cercava con coraggio di restare a galla (ma irrimediabilmente senza successo). Avevamo tre figli, uno dei quali autistico, e per un periodo lungo e sciagurato abbiamo vissuto nell’indigenza. A trent’anni ho divorziato perché era il solo modo per uscire da quel tunnel. Nei dieci anni successivi, ho fatto due lavori e ho cresciuto da sola i miei tre figli, senza assegni di mantenimento né alcun tipo di aiuto da parte del padre.
Quando ho pubblicato il mio primo romanzo, avevo 39 anni, e ce l’avevo fatta solo perché grazie a un lavoretto da insegnante avevo conosciuto alcuni scrittori di rilievo e avevo vissuto per tre mesi dai miei genitori mentre finivo la prima bozza. Dopo aver consegnato quel manoscritto, ho ottenuto un posto come redattrice in una rivista, bello e poco faticoso. Un anno dopo ho conosciuto il mio secondo marito. Per la prima volta in vita mia avevo un compagno degno di questo nome, un uomo su cui potevo contare, che c’era per me e per i nostri figli. La vita è diventata più facile. In un periodo relativamente breve, ho scritto un libro di nonfiction, un secondo romanzo e una trentina di saggi brevi.
Oggi quest’uomo affettuoso che compare alla fine della giornata, mi chiede come procede la scrittura, mi versa del vino e mi porta fuori a cena è il mio “mecenate”. Mi accompagna quando mi sobbarco 800 chilometri per una presentazione di un’ora e un quarto, gestisce le mie finanze, e non si lamenta mai degli anticipi bassi e delle vendite modeste dei miei libri oscuri e difficili.
Sono riuscita a scrivere il mio terzo romanzo in otto mesi tondi tondi. L’ho iniziato mentre eravamo in vacanza. Poi sono andata avanti a scrivere, felice e piuttosto alacremente, perché avevo tempo e mezzi, oltre all’aiuto di mio marito, del mio agente e di un amico redattore pieno di talento. Senza tutti questi privilegi, probabilmente sarei ancora ferma a pagina 52.
Bene, questi sono i vantaggi che ho io. Ora ditemi quali sono i vostri.

Ann Bauer è l’autrice di due romanzi e un memoriale. Ha collaborato a Salon, Elle, The Washington Post, The New York Times. Il suo ultimo libro è “The Forever Marriage” (The Overlook Press, 2012).  
Questa storia è apparsa su Beyond The Margins con il titolo “The Conversation We Never Have” noi la ripubblichiamo qui con il gentile consenso dell’autrice.  
Chiara Manfrinato  (versione italiana)  traduce narrativa contemporanea e valuta romanzi per editori italiani e francesi. A Parigi ha lavorato anche come project manager e social media manager. Adesso che è tornata a vivere a Palermo si è messa a correre. La potete trovare anche su Twitter
 articolo originale in italiano qui:
http://www.abbiamoleprove.com/scrittori-e-soldi/




Al margen, al margine della società in piena, disperata postmodernità nelle immagini struggenti dell'artista Matias Almargen

Hay dibujos que nacen al margen.
Nacen casi sin querer. Nacen al costado, afuera de lo importante. Nacen para no agradar ni ser vistos. Nacen para no ser terminados. Conviven con tachaduras y ni siquiera merecen el esfuerzo de ser borrados.
Son hijos del aburrimiento, del inconformismo o del enojo. Son los hijos indeseados del lápiz. Son solo bocetos de algo que podría haber sido mejor, pero fueron abandonados. Son una promesa incumplida, un proyecto trunco. Son la representación de ideas descartadas. Son la basura del subconciente.
Pero son más viscerales y sinceros que otros dibujos porque no tienen la obligación de agradar. Porque nacieron para no ser vistos. Porque nacieron sin estética. Porque nacieron solo por un impulso y nada más. Porque nacieron para molestar, ya que muestran lo imperfecto.
Pero no les importa.
Y no les importa porque viven al margen



qui la sua pagina:
https://www.facebook.com/AlMargenPagina


First episode of the first official season of The FREQ Show! In this premiere episode (which also features The FREQ Show's new shorter, more focused format), we examine the issue of "marketplace feminism." Is there a problem with corporations marketing certain shoes, yogurt, or breakfast cereal as inherently "feminist" or "empowering"? Anita breaks it down for you in Feminism for Sale in Aisle 4!


Today, Iran’s strict Islamic culture would never allow such scantily clad women to appear on posters like this (even if they are not real photographs.
Seen here are posters for 1972’s Mehdi in Black and Hot Mini Pants, a Persian romance film, and The Golden Heel from 1975.



La terra dei Santi (2013) esordio nei lungometraggi del regista Fernando Muraca. Visione antropologica al femminile della ‘ndrangheta 
di Luigi Starace


IL film ha vinto il festival di Valence in Francia nel 2016 con la seguente motivazione “La giuria si è dimostrata sensibile all’estetica del film, nonché al coraggio del regista che ha affrontato un tema delicato in Italia: la mafia calabrese. Complimenti!”

Manfredonia – E’ una bella giornata di sole autunnale e Siponto in questo periodo, in una anonima domenica di fine ottobre, appare ancora più radiosa. Raggiungiamo Fernando Muraca nel suo albergo; ci accoglie con un sorriso, manipolando fra le mani uno strano aggeggio color piombo: “E’ un antistress che mi ha regalato mio figlio” commenta. Di lì a poco avrei notato che non ne avrebbe fatto largo uso, perlomeno in nostra presenza: “buon segno” penso fra me e me, vuol dire che non lo stiamo annoiando.

Partiamo dal film, perché La Terra dei Santi, perché Manfredonia? 

“Sono cinque anni che lavoro a questo film, ho iniziato con la collaborazione di Monica Zapelli, sceneggiatrice de “I cento passi”. La trama vede protagoniste tre donne, un giudice, la moglie di un boss e sua sorella. Il film che parla di ‘ndrangheta non vuole raccontare tanto i traffici e le gesta di questa organizzazione ma vuole dare una visione antropologica del fenomeno: perché una donna meridionale che darebbe la vita per il proprio figlio, decide ad un certo punto di “donarlo” all’organizzazione mafiosa? Il film doveva essere girato in Calabria ma lì abbiamo trovato le porte chiuse, qui in Puglia invece avete una bella realtà, l’Apulia Film Commission accoglie e sponsorizza molto volentieri progetti di questo genere, così abbiamo trovato terreno fertile per la realizzazione del progetto. La scelta di Manfredonia è stata dettata da una ragione molto semplice: morfologicamente la vostra città assomiglia molto a Vibo Valentia, dove sono nato. Manfredonia con il suo paesaggio, il mare, il promontorio garganico mi ricorda molto i luoghi dove ho trascorso la mia infanzia e dove è ambientato il film”.


A parte le similitudini morfologiche, cosa accomuna noi manfredoniani agli abitanti di Vibo Valentia, dal punto di vista antropologico?

 “Tutte le popolazioni meridionali sono accomunate da una grande sofferenza, quella di vivere in territori che sono sottoposti ad una grande violenza che si chiama mafia, che impedisce loro di esercitare appieno la propria libertà. Nelle nostre città, non siamo pari, c’è chi ha più libertà di intraprendere e c’è chi invece deve rendere conto ad altri per mettere a frutto i propri talenti. In Calabria, Sicilia, Campania, Puglia le mafie hanno il loro quartier generale che poi diffonde i suoi tentacoli in tutta Europa. Il sistema mafioso si sostituisce allo Stato, garantendo ai propri affilati sicurezza e divenendo, in un certo senso, un sistema di collocamento a tal punto che, come dicevo, anche le donne sono portate in modo acritico ad accettarne le regole immolando i propri figli”.


Parliamo di Fernando Muraca, quando nasce la sua vocazione? 

“La mia storia di professionista del cinema è legata alle mie scelte di vita. Non ho mai avuto questo sogno da bambino, è capitato. Ho imparato fin da piccolo a mettere a frutto i miei talenti, sono convinto che se compi questo esercizio progettualmente alla fine questo porta alla piena realizzazione dei propri sogni. Stavo girando il mio primo cortometraggio, ad un certo punto dovevo riprendere il volto della protagonista, mentre giravo mi sono reso conto che non mi vedevo più, ero completamente immerso nell’attimo presente. Questo ha provocato in me una gioia immensa, di piena realizzazione, così ho pensato: se questa cosa mi rende così felice vuol dire che questa è la mia vocazione”.
Riprese film 'La Terra dei Santi'; scene girate in Piazzetta (ph: Luigi Starace)
Riprese film ‘La Terra dei Santi’; scene girate in Piazzetta (ph: Luigi Starace)

Qual è il film che ha girato che porta sempre nel cuore, il figlio prediletto?

 “Il primo e l’ultimo, questo che sto girando adesso. Nel mio primo cortometraggio “Ti porto dentro”, ho rappresentato tutti i semi di una poetica che poi avrei sviluppato nel tempo in tutti i miei lavori. Ti porto dentro racconta la storia della buona morte: che cosa succede ad un uomo quando giunge alla fine della sua vita e deve abbandonare questa terra? Ero andato al funerale di una persona, che mi colpì profondamente; quel momento sembrava una festa, si viveva sì il dolore del distacco ma al contempo quel giorno ci diceva di un uomo che passando nel mondo, aveva lasciato cose meravigliose. Ispirandomi a questo momento ho scritto una storia d’amore che doveva realizzarsi proprio nel momento in cui la vita finisce”.

C’è stato qualche momento in particolare nella sua vita durante il quale avrebbe preferito mollare tutto e fare un passo indietro? 


“Il mondo del cinema, si sa, ha delle dinamiche molto complesse, è dura, e a volte i tempi non sono maturi per accogliere e apprezzare il tuo lavoro. Sì, ho attraversato un momento di sofferenza molto particolare, è difficile capire cosa fare quando finalmente sei riuscito a realizzare il sogno della tua vita (diventare regista ndr) e sei convinto di aver realizzato un buon prodotto che però viene rifiutato in tutti i festival in cui lo presenti. E’ quello che è capitato a me; non riuscivo a capire perché il mio film veniva rifiutato ovunque lo presentassi anche se si trattava di un buon lavoro. In quel momento di crisi sono stato spinto ad andare avanti, mi ha aiutato molto la fede, il mio rapporto epistolare con Chiara Lubich (fondatrice e leader del Movimento dei Focolari), conclusione se non avessi perseverato e avessi abbandonato tutto, ora non sarei qui. Cinque anni più tardi, lo stesso film ha riscosso un successo non indifferente. Semplicemente quando lo avevo presentato la prima volta la critica e il pubblico non erano pronti ad accoglierlo. Nel nostro lavoro a volte accade di anticipare i tempi, bisogna solo saper aspettare”.

So che lei ha una grande fede, come si può riuscire nel mondo di oggi, a trasmettere il volto di Dio attraverso un film? 

“L’uomo è un essere dotato di interiorità, a questa cosa ognuno di noi dà un nome, c’è chi la riferisce a Dio, chi ad un’altra entità. Io ho ricevuto una formazione cristiana, sono nato in Calabria e qui l’essere cristiano è qualcosa di naturale. Quindi il fatto di essere cristiano è prima di tutto legato a questo. Mi identifico nei valori della famiglia, dell’amicizia, dell’accoglienza che secondo me sono alla base di ogni comunità sociale e questo non può essere ininfluente nelle mie opere. Cerco di immettere nelle mie opere un senso spirituale, qualcosa che rimandi a qualcos’altro che non vediamo e che non si può descrivere. Quando racconto le storie, cerco l’uomo e Gesù è l’uomo. Dio è nelle persone che incontro, nei miei collaboratori, nei miei personaggi. Essere credente significa provare un amore sconfinato per l’uomo”.

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L’opera prima, prodotta da Kinesis Film con il sostegno di Apulia Film Commission, è stata riconosciuta di interesse culturale e realizzata con il contributo della Direzione Generale per il Cinema. 
Interpreti principali:
Valeria Solarino, Lorenza Indovina, Daniela Marra, Ninni Bruschetta e Francesco Colella.
Le riprese, iniziate a Manfredonia (FG) lo scorso 14 ottobre, si sono concluse il 9 novembre. Nel corso dell’incontro il regista Muraca ha evidenziato la volontà di un racconto “utile a quelle donne,a quelle famiglie che non sono riuscite ad interrogarsi sull’affidamento dei propri figli alla criminalità organizzata, nonostante questo avrebbe potuto significare la perdita dei propri cari”. “Manfredonia – ha detto il regista – è stata scelta dopo una visione della struttura della città, a partire dalla presenza del porto”.
Il film è stato girato interamente a Manfredonia dopo il diniego delle APF della Sicilia e della Calabria

I film L’ora del lupo e Il rito sono stati girati nella seconda metà degli anni 60 e vengono considerati minori, soprattutto dalla critica europea. Vincenzo Totaro spiega quanto sia erronea questa catalogazione.

 L’ora del lupo (Vargtimmen) Svezia 1966/1968 di Ingmar Berman, con Max Von Sydow, Liv Ullman, Erland Josephson, Ingrid Thulin

Film controverso  appartenente alla fase calante di Bergman prima della rinascita degli anni settanta, denso di elementi autobiografici. Il film riesce a fare molta paura. Con pochi tocchi e un ritmo lento, ossessivo, a tratti esasperante. Qui si riprende e riaggiorna il cinema espressionista. Il risultato è a tratti folgorante con sequenze che riescono a mettere i brividi così, scollate dal contesto; non c’è bisogno di vedere e capire il resto, fanno paura e basta, proprio come le immagini che degnamente popolano gli incubi e significano solamente sé stesse.Quanto basta per accusare il film di eccesso estetizzante, ma l’immagine, in un film del genere, è tutto. Va caricata, esasperata in senso espressionista. I volti divisi dalle luci e dalle ombre, quei contrasti che rendono tutto straniante e irreale. Sven Nykvist fa, tanto per cambiare, una fotografia stupendamente contrastata e questo rende il compito di Bergman più facile. Se proprio vogliamo trovare un difetto, possiamo riferirci alla incostanza di Bergman nel registro onirico. Non ha sempre i tempi e le intuizioni giuste e se nella breve distanza se la cava alla grande, nelle sequenze più lunghe perde qualche colpo (in questo perde la sfida a distanza con Epstein e con il Dreyer di Vampyr). Si tratta comunque di una puntualizzazione un po’ forzata che non sminuisce il valore del film. 
bergman2In una sequenza il protagonista afferma che il tempo, certe volte si ostina a non trascorrere; si mette così a contare i secondi fino a raggiungere il minuto e il film si ferma così, aspetta per un minuto prima di riprendere la notte popolata di incubi e vampiri. Chiaramente debitore del Vampyr di Dreyer nonchè di una lunghissima schiera di film del periodo muto non solo espressionisti, ma anche appartenenti alla prima avanguardia e al surrealismo. L’isola pare un luogo ideale per materializzare gli incubi interiori e il terrore scorre irrazionale e incalzante nella notte come nel giorno.
Per molti critici questo è l’inizio della mancanza d’ispirazione del regista,  ma auguro a tutti gli autori di avere mancanze d’ispirazione di questo genere …

Il rito (Riten) Svezia 1969, di Ingmar Bergman, con Ingrid Thulin, Gunnar Bjornstrand, Erik Hell, Anders Ek, Ingmar Bergman

L’arte e il suo contrario . L’arte è il suo contrario (replay) in questo film arrabbiatissimo di Bergman. Con PERSONA l’autore scandinavo aveva alzato il tiro, nascondendosi dietro un generico quanto fuorviante intimismo; qui lo scontro è frontale. L’arte e la morale si scontrano senza esclusione di colpi; l’arte ha dalla sua l’utilizza forsennato e abbacinante della sessualità, sovraesposta e pronunciata; la morale comune ha potenza carsica e sgretola l’arte dall’interno, svuotandone contenuti e contenitori. Gli attori sono simbolo di pienezza rituale ma insidiati dalla morale comune diventano poveri depressi capricciosi e un po’ maniaci, dei vuoti a perdere, patetici e grotteschi.Il giudice, dal canto suo, vacilla di fronte alla mutaforme Thulin e scopre il peggio ( o forse il meglio nel senso di vero ) di sè.
Allora c’è il bisogno di una confessione e il caso vuole che il confessore sia lo bergma3stesso Bergman. Molti hanno speculato sulla distanza presunta tra Bergman e il suo personaggio, ma hanno tralasciato un piccolo, fondamentale, particolare: non si tratta di una confessione ma di un colloquio e il frate che ascolta tutto in silenzio non giudica, ma si volta dall’altra parte.  Il frate non impersona la morale comune e l’oppressione come si può facilmente dedurre, ma è un guardiano della soglia stanco e forse un po’ annoiato. Accompagna il giudice dall’altra parte,  e dall’altra parte c’è l’arte che scandalizza perchè al suo opposto c’è sempre qualcuno che non vede l’ora di scandalizzarsi.

Paolo Spinola regista italiano misconosicuto da riscoprire a cura di Gordiano Lupi (parte 1/5)


Filmografia



Paolo Spinola (Genova, 1929 - Roma, 2005), regista, soggettista e sceneggiatore, entra nel cinema nel 1952. Fino al 1958 la sua attività principale è come aiuto di Gianni Franciolini: Il mondo le condanna (1952), Villa Borghese (1953), Racconti Romani (1955), Peccato di castità (1956), Racconti d’estate (1958). Collabora anche con Giorgio Capitani (Piscatore ’e Pusillipo, 1954), Luigi Comencini (La finestra sul Luna Park, 1956) e Riccardo Freda (Agguato a Tangeri, 1957, di cui è anche soggettista e sceneggiatore). 
Il promettente regista, purtroppo per il cinema italiano, realizza solo quattro pellicole d’autore, dal 1964 al 1977, caratterizzati da un accurato lavoro di introspezione psicologica dell’animo femminile. 

Esordio alla regia datato 1964 con un film che la critica reputa un piccolo capolavoro: La fuga. Protagonista Giovanna Ralli, conosciuta da Spinola sul set di Franciolini di Villa Borghese (1953). Il secondo film, L’estate (1966), per il tema torbido del rapporto tra una figliastra sedicenne e un ricco industriale ebbe noie con la censura e un fermo divieto ai minori. La donna invisibile (1969), terza fatica, venne sequestrato dopo il primo giorno di proiezione e fermato per ben due mesi. 


La censura voleva il taglio di otto sequenze, a cominciare dai titoli di testa che vedono numerosi nudi parziali di Giovanna Ralli, circa venticinque minuti di materiale. Il film fu assolto con una sentenza storica che interpretava in maniera ampia il concetto di comune senso del pudore.


Paolo Spinola conclude la sua attività di regista con Un giorno alla fine di ottobre scritto nel 1969 - in piena contestazione studentesca - ma girato soltanto alcuni anni dopo ed entrato in distribuzione nel 1977 quando i problemi erano altri: si parlava di terrorismo, non di scontri di piazza tra polizia ed extraparlamentari, tra studenti e forze dell’ordine.


Spinola cura sempre il soggetto e può dirsi "un autore". 
I temi portanti del suo cinema sono la descrizione critica dell’alta borghesia, ma anche un’attenta analisi di singolari figure femminili. 

Testimonianza


Abbiamo reperito una testimonianza di Paolo Spinola resa a Ester de Miro nel volume Genova in celluloide. I registi liguri (Comune di Genova, 1984), curato da Claudio Bertieri e Marco Salotti:
 “L’idea di fare cinema è nata per caso, come per molti altri: forse perché ero stato ad Alassio durante la guerra e lì avevo fatto amicizia con il figlio di Gino Cervi, che voleva andare a Roma per fare il produttore. Così mi sono lasciato coinvolgere e sono andato a Roma con lui. Ho iniziato la mia attività nel cinema come aiuto regista di Franciolini soprattutto, ma anche di Freda, Capitani, Comencini. [...] 
In quel periodo facevo anche qualche sceneggiatura con Amidei e dei documentari. Poi con Gigi Malerba avevamo costituito una società pubblicitaria, facevamo degli short [...]. Ho realizzato il primo film, La fuga, nel 1963: ho scritto io il soggetto e la sceneggiatura. L’interprete [...] era Giovanna Ralli, una professionista perfetta, secondo me la prima attrice italiana per bravura: per questo film vinse anche il Nastro d’argento della stagione, come migliore attrice protagonista. L’estate è del 1966: anche questo film è nato da un mio soggetto, mentre la sceneggiatura l’ho scritta con Marco Ferreri. Veramente avevo fatto una prima sceneggiatura con Amidei, molto brutta... anzi bellissima sul piano dello spettacolo, ma non era quello che volevo fare io. [...]
Secondo me nel cinema moderno lo spettacolo deve nascere dall’osservazione della realtà. I conflitti non devono essere drammatizzati ed enfatizzati, ma devono scaturire con naturalezza. L’idea della storia mi era venuta dopo essere capitato con Amidei su una barca di alcuni amici [...]. La parte maschile è stata [...] affidata a Enrico Maria Salerno, che è bravo [...]; per la parte della figlia ho trovato una ragazzina al Piper, Mita Medici, che non sapeva certo recitare, non aveva mai fatto niente, ma aveva un suo peso... aveva qualcosa... non aveva tecnica, ma la guardavi e bastava... non so, è difficile spiegare. Il 1969 è l’anno de La donna invisibile: l’ha prodotto la Clesi Cinematografica dopo il rifiuto di Enzo Doria al quale l’avevamo proposto [...].
Per fare cinema l’importante è avere delle storie. Il guaio oggi è nei costi, che sono troppo alti, e per avere dei finanziamenti bisogna dare delle garanzia e rischiare di persona; un pittore, uno scrittore, usa la propria tela o la propria carta, fa il suo quadro o il suo libro e poi può venderlo o no, ma un film lo devi vendere prima... a essere sincero oggi non sarei disposto a investire soldi nel cinema”.

Testo a cura di Gordiano Lupi Direttore Editoriale delle Edizioni Il Foglio



Japan #Mashup: in #Infini-T Force primo tentativo di formare una squadra di supereroi per il #Giappone Ci eravamo abituati ai robottoni uniti o a battaglioni di cavalieri dello zodiaco per questo vedere insieme i più noti eroi della #Tatsunoku Production sa di novità: #Tekkaman il cavaliere dello spazio, #Kyashan il ragazzo androide, #Hurricane Polimar e #Gatchaman la battaglia dei pianeti insieme in un unica serie. Espediente narrativo proprio il potere della creazione di racconti, una matita in mano alla consueta adolescente indipendente e spigliata.

La postmodernità in “Addio ai confini del mondo” Paolo Cianconi, FrancoAngeli 2011
estratto dal libro su gentile concessione dell'autore per Cinemadonia.it


 Il postmoderno è un entità difficile a definirsi. Gli stessi autori che dichiarano di iscriversi e di riconoscersi nella così detta post-modernità faticano a convergere su una definizione univoca, universalmente accettata e condivisa di questo fenomeno culturale (Dellantuono, Pastore) .
Possiamo parlare di postmodernità come della cultura che si è sviluppata subsoglia dagli anni settanta in poi, ma che è emersa all’attenzione preponderante dagli anni ottanta in poi. Il postmoderno è caratterizzato da un pensiero specifico, dal collasso di quasi tutti i sistemi ideologici e di riferimento del ‘900, dalla inserzione delle tecnologie come terzo asse di intelaiatura della specie umana, insieme al binario biologico e culturale.

Trapasso moderno – La questione della fine della modernità è ancora più ardua della sua definizione. Allo stato attuale non possiamo dire con esattezza quale sia stata la sequenza e quali i suoi protagonisti; tra l’altro non tutti gli autori sono d’accordo che la modernità sia trascorsa o terminata. Il dilemma del confine della modernità sembra, almeno in parte, rimanere aperto: finisce la modernità? A. Touraine (1970), addirittura, non parla di un passaggio in avanti, ma di una retromarcia, di un processo di decostruzione: la de-modernizzazione.

C’è chi sostiene persino che si dovrebbe parlare di una separazione in “due Novecento”. Tuttavia, inevitabilmente qualcosa è accaduto nell’ultimo cinquantennio e non si può trascurarne l’importanza. Il mondo non è assolutamente più assimilabile entro i parametri della modernità classica, industriale, capitalistica, etnica, statale e non ultimo materiale-fisica. 

Numerosi fenomeni socio-tecnologici hanno cambiato la nostra realtà, molti di questi processi trasformativi sono, tra l’altro, tutt’ora in corso. Potremmo così parlare di trasformazioni e conseguenze. Tra le trasformazioni più importanti ricordiamone almeno tre: le ricerche sulle nuove tecnologie, il postcolonialismo e le sue derive, le trasformazioni geopolitiche ed economiche dopo la caduta dei regimi socialisti. La nostra specie è immersa in queste metamorfosi che coinvolgono i gruppi, il nostro modo di vivere e non ultima la nostra stessa biologia.
(per approfondire leggere Addio ai confini del mondo; parte seconda)

Tra le conseguenze delle grandi trasformazioni ricordiamo almeno tre macro fenomeni: la creazione di un nuovo tipo di spazio-tempo (spazi virtual-transnazionali) e l’alterazione di quello consueto in terre vulnerabili; l’emergere ed il sussistere di un nuovo tipo di pensiero tra i sapiens (la cosiddetta fine delle “grandi narrazioni” e sue conseguenze sul pensiero dei postmoderni); il post-umanismo: trasformazione del corpo e della psiche per effetto delle nuove tecnologie.
(per approfondire leggere Addio ai confini del mondo; parte terza

Quanto sopra scritto, naturalmente, non rende conto della portata di questi eventi bio-socio-psicotecnologici cui tutti noi siamo sottoposti. Il mondo intorno a noi è sollecitato, stirato mesmerizzato tra campi di energie, che in parte sono nuovi e in parte riadattati (mutati): se la realtà perde le caratteristiche che conoscevamo e diviene altro. Nondimeno essa è riflessiva, cioè si avvede di quello che gli accade e tenta di conservare una rotta. Le prossime generazioni, e almeno alcune di quelle presenti, dovranno fare i conti con la resa del mondo che conoscevamo, mentre già emerge il nuovo sistema, e navigarci dentro. Mentre i confini collassano, le cose si trasformano.



La Guerra dei Mondi di Spielberg vista con una insolita chiave di lettura, una fra le tante: osservare il film come un’allucinazione della bambina protagonista atta a recuperare la figura di un padre lontano e indifferente ? Certo non è il primo film di presunta science-fiction del regista, né la prima volta che parla di famiglia…

articolo originale di Luigi Starace
 

Introduzione
"Volevo rendere questo film simile ad un prisma, in cui ognuno può vedere una sfaccettatura diversa. Quindi ho cercato di renderlo più aperto possibile all'interpretazione [..] ho messo insieme tanti elementi, in modo che ognuno possa avere la sua opinione."
(Spielberg per intervista a La Repubblica )
Gli artisti sono il limite di loro stessi. Dopo l’apice entrano in ridondanza.
Non tutti però. Alcuni smettono mentre fra gli altri, quelli che continuano, i più coscienti ( o prudenti ) realizzano le opere successive come "variazioni sul tema". In buona fede si potrebbe pensare che idea che fa botteghino non si cambia, sarebbe anche semplice in fondo. Inoltre aggiungere qualcosa di originale nelle opere successive sarebbe sempre più difficile perciò il prodotto proposto sostanzialmente non cambia.
Invece con malizia ( analitica ? ) si potrebbe pensare che il core, il nucleo caldo sia ancora scoperto e che l’artista senta ancora il bisogno di esporlo. Per raffreddarlo, consegnarlo, permettere che venga scoperto ?
Non è cosi importante appurarlo invero, o almeno non così primario, urgente come il produrlo.
Tale è l’opera , non quale l’artista.

La science-fiction e il regista
Ma cosa è per Spielberg la fantascienza:
"La fantascienza è una vacanza che mi tiene lontano da tutte le regole della logica narrativa. E' una vacanza dalla fisica di base. Ti permette di lasciarti alle spalle tutte le imposizioni e di volare. Noi, come esseri umani, non possiamo volare e invidiamo gli uccelli per questo. Io invidio Tom Cruise perché pilota aeroplani e jet mentre io non posso farlo, ho troppa paura. Per la maggior parte di noi, la fantascienza è l'unica possibilità di volare veramente. E' per questo che amo tanto questo genere e ci ritorno sempre, perché non dà limiti all'immaginazione. La sfida, in questo caso, è stata quella di far sembrare comunque credibile il film. Sia io che David Copp, lo sceneggiatore, abbiamo fatto in modo di far sembrare i personaggi più reali e normali possibile. Detto questo, la fantascienza rappresenta per i registi una grande fuga." ? (intervista per La Repubblica)
La fantascienza dei film di Spielberg è "magica". Per questo scontenta i puristi del genere e in fondo un po’ annoia. Se ci fosse altro sotto però ?
" A parte i problemi di originalità, a volte le vicende sono tanto forzate e innaturali da sfiorare il ridicolo. Avrebbero dovuto intitolare il film "Una Serie di Fortunati Eventi" (tanto per rifarsi al titolo di un recente film tratto dai libri di Lemony Snickets): l’eroe di turno e la sua famiglia non vengono scalfiti nemmeno dalla più drammatica delle catastrofi. Per una serie di fortunate coincidenze la famiglia Ferrier è l’unica a trovare un’automobile. E si tratta di un'auto magica, visto che riesce magicamente a passare senza intoppi attraverso un fittissimo ingorgo autostradale e riesce a restare illesa anche quando viene parcheggiata di fianco ad un quartiere e ad una abitazione che rimangono quasi completamente distrutti. ". Daniele Toninelli
"La mia vera natura ha voluto che facessi 'E.T.' e 'Incontri ravvicinati del terzo tipo', ma lo spettatore che è in me ha sempre voluto fare 'La Guerra dei Mondi'. Cosa c'è di più elettrizzante di una guerra tra la razza umana e gli extraterrestri?". Spielberg
" Spielberg non si accontenta della fine degli invasori alieni rovinando quel poco che restava da rovinare chiudendo il film con un quadretto di famiglia, viva e vegeta fino alla terza generazione grazie a chissà quale miracolo, che più che portare sollievo fa urlare di rabbia lo spettatore. Già ci siamo dovuti bere il fatto che gli alieni siano venuti sulla Terra senza prendere le più elementari precauzioni chimico-batteriologiche (potevamo bercela ai tempi di Wells, nel 2005 è ben più difficile), ma il lieto fine a tutti i costi, riconciliazione padre/figlio compresa, è stato davvero troppo. " Silvio Sosio

I tempi di narrazione sono quelli di un bambino, lo spazio e gli oggetti propri degli adulti.
Invero Spielberg è ormai un veterano della dissimulazione del significante narrativo: usare la fantascienza o la fantasia per poter parlare in sfondo della famiglia, o meglio del suo modello medio borghese "american way of life" ( un uomo deve fare cio’ che un uomo deve fare, il coraggio ma non a sfondo catartico proveniente dall’amore-incontro-scoperta dei figli o il ritrovsamento del prorpio status di figlio )
To tell the truth molta della produzione western dagli anni 30 ai 50 era imperneata di tematiche e conflitti a forte caratterizzazione edipica. Ciò è tanto vero che il Leone d’oro di quest’anno, a distanza di 50 anni dall’epoca d’oro del far west, l’ha vinto il regista Ang Lee ( lo stesso di Hulk e La tigre e il dragone ) con un film sui cow-boy gay (Brokeback Mountain )
Spielberg trasla dal latte del far west alla via lattea del so far far away. I fuorilegge braccati e agognanti il Messico nascosti dai figli dei braccanti ( e quindi oggetto di sfida verso le pre-generazioni ) per esempio,diventano alieni maldestri che provano a fare una collect call ( chiamata a carico del destinatario ) su Alpha Centauri e affini, capaci tuttavia di realizzare ( garantendo questa volta una gratifica preclusa ai loro omotetici in bianco e nero ) i piccoli sogni rompi monotonia dei figli, come volare con la bici al chiaro di luna . Non è quindi solo un finale meno mortifero a far meritare l’etichetta di ottimista al nostro cineasta. Qualcuno a lui vicino si spingerà anche oltre, ribaltando le posizioni, non solo giustificando la ribellione figliare bensì innalzandola a crociata contro l’abisso, il lato oscuro. Figli cosi forti o impauriti dalla realtà che è possibile accettare ma non assimilare:
- Luke! Io sono tuo padre —
Luke Skywalker, capace di interagire autonomamente con La Forza cosmica, sente che è la verità, che quello è suo padre, ma preferisce lasciarsi cadere dentro un lungo tunnel terminante nel vuoto più che seguirlo. Guerre Stellari: a volte non c’è spazio più lontano della stanza affianco. Dall’ottimismo all’autonomia di un figlio, di una generazione, come si comprende bene dalle parole di Walter Murch ( montatore da tre Oscar ) parlando di Lucas: " Così si disse: okay, se è troppo scomodo politicamente come soggetto attuale, trasferirò la storia altrove e la farò accadere in una galassia lontana nel tempo e nello spazio. I Ribelli sono i nordvietnamiti e L’Impero gli Stati Uniti. E se possiedi la Forza, non importa quanto sei piccolo, puoi sconfiggere il grande potere oppressivo." Guerre Stellari è la versione di George Lucas di Apcalypse Now." ( Il cinema e l’arte del montaggio )
Illuminante, no ?


Una considerazione gruppale
Un film o una serie di film dello stesso regista permettono più che l’etichettatura del singolo artista, una collocazione antropologica del filtrato-lavoro nel background sociale di riferimento. Escludendo la funzione filtro ( alfa in termini bioniani ) del cineasta e focalizzando non sul "perché" ma sul "come" i piani di interpretazione si moltiplicano, consentendo, nella riflessione psicodinamica della interfaccia artista-opera—spettatori, l’emergere dele realtà gruppali inconscie, determinanti, oltre alla maestria talentosa della troupe, il successo del film. Inquadrabile apparentemente in un assunto di base bioniano di attacco-fuga La Guerra dei due mondi non ha riscosso il successo sperato in Europa ( eppure Walsh, lo scrittore del romanzo anti colonialista da cui i film sono stati tratti e i vampiri sono forieri di copyright europeo ). Di fatto, per il modo in cui il nemico è debellato la meta trama è riconducibile all’assunto di base di dipendenza: i nemici sono sconfitti dal sangue infetto che risucchiano e da un elemento invisibile agli uomini, il microbo. Anche la voce narrante in epilogo sentenziante che : " Nessuna morte è vana " mi induce ad affermarlo. C’è di fatto il miracolo ed è ciò che anche lo spettatore in sala mormora umoristicamente.

La filmografia spielberghiana, la ricorrenza.
- Sci-fi:
1977-Incontri ravvicinati del terzo tipo: un gruppo eterogeneo di persone riceve l’incipit da entità extra terrestri per un monte su cui sbarcheranno. Il protagonista abbandona tutto per arrivarci compresi moglie e figli che gli danno dello strambo. Riunirà nel close encounter, tanto da venir adottato dagli alieni e andar via con loro dopo una metamorfosi ad acta
1982-ET: un alieno simpatico viene protetto da un gruppo di ragazzini in bici. Cucciolo perso nella periferia della Via Lattea tra cuccioli della provincia americana saprà meravigliarli e grazie al loro aiuto-protezione tornerà a casa.
2001-AI: dopo millenni solo NY rimane a documentare i nostri giorni e nel profondo di quello che era l’Atlantico gli esseri oblunghi e iridescenti del Futuro trovano il pinocchio-androide addormentato mentre era alla ricerca della mamma-fata turchina. Potranno grazie alla tecnologia fargli rivivere il passato e finalmente potrà festeggiare il suo compleanno "in famiglia" ( film nato da un plot imbastito da Kubrick in cui il finale da mezzora è totalmente spielberghiano ).
2002-Minority Report: Sempre un Tom Cruise tormentato per la perdita della sua famiglia e intento ad evitare che altri soffrano per omicidi futuri ( i futuri criminali sono arrestati nel presente prima che commettano il crimine ).
- Non sci-fi :
1991-Hook: Peter Pan non riesce a staccarsi dal cellulare e il figlio si lascia adottare da Uncino. Per riconquistarlo il satirello volante dovrà tornare a fare scherzi da prete, pardon, da peter-pan, essere accettato dagli altri marmocchi e mostrare il suo coraggio in duello. Non volava perché non fantasticava più. Uncino seduce il figlio di peter grazie al baseball…
1997-Salvate il soldato Rayan: una dozzina di soldati viene mandata in missione (suicida) dietro le linne nemiche per recuperare dopo lo sbarco in Normandia il quarto figlio arruolato, paracadutista disperso, e unico ancora in vita. Mamma America non vuole che una mamma del missisipi pianga ancora. Inutile dire che è l’unico a salvarsi, dalle brutture della guerra e dalla morte.
Insomma condita con salse diverse ma la pietanza dal sapore quasi winnicottiano sembrerebbe esserci e lo stesso regista nell’ intervista già citata ammette che non è lui quello capace di far film "disperati". Sarà vero, ma la miopia c’è…

Contesto famigliare
Che il vero nucleo narrativo del film sia la famiglia, con tutte le difficoltà che comporta metterle in scena qualcuno se n’è accorto :
Spielberg fa leva, esattamente come in molti temevamo, sui sentimenti più epidermici e deteriori, riducendo il tutto a un apologo moraleggiante sulla ritrovata unità familiare di fronte alle avversità. Malgrado in varie interviste dai toni trionfalistici e autocelebrativi il "più grande regista della storia del cinema" (permettetemi di dissentire ) abbia dichiarato il contrario, c’è soltanto un vaghissimo accenno alla verità proclamata da Wells, cioè la lotta per la sopravvivenza di due razze .Massimo Manganelli
Parlare di rapporti familiari per un regista, in genere, non è una passeggiata:
" …I vissuti personali del regista lo inducono ad adottare un atteggiamento prudente.Egli preferisce non proporre una " terapia familiare " che inevitabilmente lo farebbe entrare in risonanza con la propria famiglia d’origine o con quella acquisita. Le problematiche familiari, pur presenti nei vari film, vengono affrontate con l’utilizzo di un piccolo espediente. La famiglia viene smembrata, frazionata in tanti sottosistemi e l’attenzione focalizzata su alcune diadi …" ( L’analista in celluloide, Ignazio Senatore )
Tom Cruise conferma che è una tattica vincente:
" Adoro il modo in cui Steven Spielberg affronta il concetto di famiglia nei suoi film "

La Trama del film
Protagonista del film si chiama Ray Ferrier, lavora come operaio specializzato nei cantieri navali del New Jersey, è un padre separato inaffidabile e un po' sbruffone incaricato di passare con i due figli il classico week-end dove, in ossequio alla legge di Murphy, tutto ciò che può andar male lo farà. Dopo le prime anomalie atmosferiche - miriadi di fulmini che cadono nello stesso posto senza alcun tuono -, il buon Ray s'imbatte con stupefatto terrore in un oggetto non identificato che affiora dal suolo stradale ed inizia a polverizzare la folla circostante senza pietà di sorta. Da quando la minaccia si manifesta in tutta la sua gravità il padre irresponsabile tenterà d'impegnarsi al meglio per far continuare a respirare due rampolli che lo sopportano a malapena, e nel tentativo non si risparmierà nessuna furbata di sorta. L'avanzata inarrestabile dei tentacolari tripodi extraterrestri proseguirà in un'escalation di panico, colorandosi di inedite tinte vampiresche durante l'incontro della famiglia in fuga con un superstite ormai ottenebrato dalla sindrome della resistenza a tutti costi.

L’ allucinazione della bambina, una proposta di lettura
A mio avviso uno dei metatesti possibili de La Guerra dei Mondi è proprio quello del sogno immaginario della bambina figlia del protagonista.
Sulla base della mia esperienza personale in casa famiglia per minori in affido non trovo insolito che la figura paterna assente o indifferente al bambino sia idealizzata fino alla onnipotenza.
Non potrebbe allora accadere che una bambina "ricodifichi" tutto il mondo circostante per poter assimilare e metabolizzare un padre che seppur umano sembri vivere su un pianeta lontano ( come sembra lontano, ma non lo è il New Jersey da Boston ) ?
"Nel bimbo n on c’è disitinzione tra rappresentazione, degli oggetti reali, e affetto: l’affetto si rivela quale primo prodotto mentale, e come tale entra a far parte ,determinante, delle incipienti capacità rappresentazionali. Gli oggetti che il bimbo si rappresenta sono mutevoli e, per noi, confusi: un oggetto può al contempo essere anche un altro. Ciò si evidenzia nel disegno spontaneo dei bambini. Possono disegnare un affare strano che conteporaneamente è un albero, ma anche un cane; e per loro è contemporaneamente tutti e due. Bisogna essere a contatto col bambino, per entrare dentro questo suo mododi vedere: non si può chidergli " Cosa hai disegnato ?", perché allora lui ci risponderà in termini compiacenti alla nostra struttura adulta. (Imbasciati-Fondamenti psicoanalitici della psicologia clinica)
C’è il viaggio alla fine del quale tutto è risolto e il tripode è attaccabile non perché il suo campo di forza è stato forzato o annullato ma perché il suo abitante-manovratore è malato.
Gli Altri di Altrove sono impercettibili come fantasmi e come tali scendono dal cielo, ma ingombranti come angoscie essi emergono dal sottosuolo terrorizzando e dissolvendo letteralmente gli adulti. Eppure diventano totalmente digeribili e assimilabili in sembianze e atteggiamenti ( guardano foto, girano la ruota della bici… ) agli occhi della bambina protagonista.

Gli alieni sembrano avere un atteggiamento persecutorio nei confronti dei due fuggitivi, padre e figlia, soprattutto quando questi si credono al sicuro, rintanati nello scantinato. Di fatti gli alieni tornano più volte ad ispezionare lo scantinato fino a scovare gli umani. ( altra lettura: vengono scoperti dopo che il padre aveva soppresso il suo opposto ed è quindi costretto ad affrontare i mostri più grandi. Non ci riesce e la figlia urlante ( ma è una costante nel film) e tutt’altro che paralizzata dal terrore ( sono proprio queste le scene in cui, dall'inquadratura e dal taglio di ripresa, evincerebbe che è la bambina il fulcro, l’occhio immobile del ciclone ) viene catturata. Al padre non resta che farsi catturare compiendo l’atto catartico del sacrificio, cui seguirà, senza che il neo eroe l’abbia voluto (deus ex machina) la distruzione del tripode, dal suo interno. Gli uomini prigionieri in cesti giganti saranno di nuovo liberi e senza un graffio dopo un volo di 10 metri.
L’unica figura femminile adulta del film è una amica di papà e sembra anche simpatica. Peccato non riesca a seguirlo mentre stanno salendo su un traghetto-salvatore. Non ci riuscirà metà della gente presente sulla riva. Ma la trama non volge al cinismo e anche il battello salvatore viene affondato. Riescono a salvarsi in pochi…Nella scena del battello emerge l’altruismo del fratello maggiore e ancora l’impotenza del padre. Nel nodo narrativo successivo il figlio si separa dal padre per unirsi all’esercito in lotta. E’ una separazione strana per i canoni hollywoodiani: non c’è ne investitura ne attrito. L’addio viene interrotto dalle urla della bimba, raccolta da altri e quasi potata via per la distrazione paterna, o per le eccessive( ? ) attenzioni date al figlio. Non c’è addio fra i fratelli, ne la bimba accennerà alla cosa in seguito.
Le scene ambientate nello scantinato a detta di diversi critici sono accessorie e non necessarie al plot, ma come da studi sugli effetti del cinema negli spettatori ( schermi violenti- Imbasciati ) le parti considerate più " brutte " sono anche le più ricche di spunti al dibattito. Ecco dunque che osservando ancora questa sequenza si nota che la bambina è l’unica a vedere le sembianze degli alieni che scendono giù in perlustrazione: il padre e lo sconosciuto lottano, in silenzio fra loro per un fucile. Il viso della bambina viene inquadrato in primo piano: l’occhio che spia da una fessura gli Altri è illuminato, quello rivolto ai due adulti che lottano è in ombra. E’ libera di vedere ora, mentre per tutto il film il padre le aveva vietato di guardare sia i tripodi giganti sia la distruzione intorno ripetendole " tieni gli occhi su di me" . La bimba osserva gli alieni curiosare maldestramente fra foto di famiglia e biciclette : nessun orrore ( gli alieni hanno abitudini vampiresche ) e il clima di suspence si stempera in Gianni e Pinotto.
Per un cinefilo, ma non solo, un tale cambio di climax è inaccettabile. Per un bimbo, no…
Per tutto il film il padre si oppone alla violenza mostrata : prima lascia cadere la pistola per poter riavere la figlia bloccata in macchina, poi cerca in tutti i modi di evitare che il figlio maggiore vada a combattere i mostri, di seguito blocca lo sconosciuto prima che spari ad un alieno. Risulta paradossale allora che decida di strangolare lo sconosciuto perché rumoroso quando basterebbe imbavagliarlo. Lui non vorrebbe ma è per "salvare la bambina" ( gli alieni sono ipersensibili ai suoni e possono rintracciarli facilmente ).
Chiude gli occhi e tappa le orecchie della piccola, va nell’altra stanza e ritorna dopo un paio di minuti. Lo sconosciuto,guerrafondaio paranoico e primitivo , l’opposto del padre, quello che si era anche offerto di badare alla bimba se il genitore fosse perito non c’è più, non compare più. Possono dormire tranquilli ora. Ma un grosso occhio spia alieno li scova comunque: al padre ora tocca affrontare , dopo il suo opposto nello scantinato, il grande tripode, vampiro e persecutore, in scalfibile…in campo aperto. Un altro "se stesso" da affrontare ?
Dopo la distruzione fortuita ( una serie di granate innescate senza la volontà del padre ) del tripode i due raggiungono sani e salvi la città in cui vive la madre. Termina il viaggio: la città è sicura, non è stata distrutta pur essendo invasa.
E’ qui che un ‘altra invisibilità si concretizza: i batteri ammorbano gli alieni, ma questo si scoprirà solo dopo e solo grazie all’epilogo del narratore. Il padre ha in braccio la figlia, è protettore ormai, non più indifferente a lei e alle sue allergie. E’ lui a scoprire e indicare ai militari che il campo di forza introno ai mostri di acciaio non c’è più. Migliaia di militari guardinghi ma non sagaci, si direbbe. E’ fatta i mostri sono attaccabili. E’ vittoria. E’ anche felicità perché tutti sono vivi e raccolti nella casa materna, anche il fratello maggiore scampato ad un’esplosione devastante.
La grande invasione, la grande paura capace di muovere — commuovere gli adulti…
Solitudine più isolamento uguale allucinazione ?

Luigi Starace

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