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Alessandro Del Gaudio lo conosco dai tempi de Il candore dei ciliegi, sarà stato il 2000, lui aveva 26 anni, io 40. Siamo invecchiati entrambi in questo mondo letterario che fagocita sogni e ambizioni, che redige scale di valore inattendibili e che ti fa smarrire la cosa più importante: la voglia di scrivere. Per fortuna Del Gaudio l’ha mantenuta, ma resta un peccato che un romanzo originale come Rintocchi di clessidra esca come autoproduzione, quando le librerie sono ricolme di spazzatura su carta, illeggibile, promossa a piene mani dal sistema mediatico. 

Discorsi vecchi, che facevo vent’anni fa, che sono costretto a ripetere, visto che la situazione è persino peggiorata dai tempi di Quasi quasi faccio anch’io un corso di scrittura (Stampa Alternativa). Rintocchi di clessidra è un romanzo costruito su racconti - per la precisione otto e un epilogo - ma il filo conduttore è la narrazione di raccordo composta da Nivolet, un narratore fantastico che scrive storie da un palazzo al centro dei mondi, racconti che messi su carta subito dopo vengono scordati.

 

Le storie del narratore protagonista sono importanti, scorrono come rintocchi di clessidra, sono le ultime storie da scrivere che dovranno risvegliare Esterel da un sonno eterno. Il dato di partenza è fantastico, così come sono soprannaturali molte ambientazioni, dotate di una doppia chiave interpretativa che passa dal realistico al soprannaturale. In ogni caso il lettore di fantasy troverà pane per i suoi denti, tra torri siderali, spazi interstellari, maghi, giocattoli soprannaturali, penne prese in prestito ad ali di corvi per scrivere storie prive di lieto fine, capitani coraggiosi e ciurme di surreali pirati. 


Lo stile di Del Gaudio è maturo e consapevole, ben strutturati i dialoghi, descrizioni come morbide pennellate, suspense narrativa dosata a dovere, costruzione letteraria che risente di letture importanti, da Borges a Calvino. Rintocchi di clessidra è la dimostrazione di come si possa fare letteratura partendo dal genere, senza tradire il rispetto per il lettore che attende una storia avvincente. Rintocchi di clessidra ne contiene nove.

Il tuo nome è un’altra opera interessante di Del Gaudio, edita da Sereture Edizioni di Varese, nel 2015, che ho avuto modo di apprezzare. Qui siamo nel territorio della narrativa sentimentale, con l’originale trovata di alternare un capitolo in prosa a una poesia d’amore. Un romanzo struggente e delicato che racconta una storia d’amore incompreso, un cuore che batte per una donna che di cognome fa follia e che resta solo un fantasma della notte, di un’altra notte in cui poterla sognare.

Provateli entrambi. Non ve ne pentirete.

Gordiano Lupi


Per acquistare Rintocchi di clessidra:

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Matsuteia ed E.T.A. Egeskov
Volevo essere un supereroe della Marvel – vol. 1



Un agile volumetto che non pretende di essere esaustivo, solo di raccogliere una serie di curiosità sui supereroi degli universi Marvel - che sono davvero tanti (quasi 1000!) tra buoni e cattivi (persino più affascinanti) -, anche perché ci sono già molti saggi specifici che contengono di tutto sulla Casa delle Idee. 


Sono un fan della Marvel dal 1970, dal giorno in cui fui affascinato in edicola da L’Uomo Ragno contro Lizard, Editoriale Corno, subito dopo essere stato irretito da Mentre la città dorme, protagonista il Devil dal costume giallo e nero di Stan Lee e Wallace Wood. Confesso che leggo Marvel ancora oggi, certo solo i personaggi classici, cose nuove come Venom e Deadpool (che i ragazzi amano) un po’ mi disturbano, riesco ad apprezzare poco persino un grande disegnatore come Todd Mc Farlaine, cresciuto come sono a Ditko e Romita, per me il massimo di modernità restano Kane, Kirby e Buscema. Non solo, mi capita di vivere come un tradimento certe trasposizioni cinematografiche di Spider Man, soprattutto le ultime, mentre ho apprezzato molto il cartone animato di Sara Pichelli con il nuovo Uomo Ragno di colore (Miles Morales). Detto questo veniamo al libro, un piccolo e prezioso manuale che in certi casi dice cose che un appassionato conosce, ma in altri fa compiere vere e proprie scoperte al vecchio lettore. 


Per esempio mi è servito a capire che il nuovo Nick Fury cinematografico è il figlio di quello che leggevo negli anni Settanta. Poi fa piacere rileggere anche quel che sappiamo, trovarlo sistemato in maniera ordinata, come la storia su Spider Man che l’editore Martin Goodman proprio non voleva pubblicare: Chi vuoi che si appassioni alle vicende di un uomo con i poteri di un ragno? Per fortuna ebbe ragione la testardaggine di Stan Lee. 


L’Uomo Ragno conta versioni da romanzo grafico strepitose, vera letteratura a fumetti, oltre a una serie regolare che - tra alti e bassi - resiste in edicola dal 1962. Gli autori del libro raccontano lo sbarco Marvel in Italia, al quale ho assistito in prima persona, negli anni Settanta, prima su Linus (grande Oreste Del Buono, quasi mio compaesano!), poi su Sergente Fury (possiedo molti numeri), infine con la mitica Corno. I due autori non dimenticano le vicende moderne con Star Comics e Play Press, per poi parlare di Panini unica depositaria del verbo Marvel. Il libro analizza la continuity - fenomeno che rende diversa e unica la Marvel -, i cross-over, il primo eroe omosessuale, gli autori che hanno fatto la storia, i problemi con il Comics Code per la troppa attualità dei racconti (droga, razzismo, Vietnam …). 


Una sezione finale è riservata agli attori dei film che hanno impersonato gli eroi Marvel, importante per rendere il tutto più attuale e appetibile per i fan contemporanei. Per quel che mi riguarda resto legato al passato, al profumo di quella carta colorata della Corno, che oggi ritrovo - come una madeleine proustiana - nella collezione da edicola Super Eroi Classic, edita dal Gruppo  Rizzoli in collaborazione con Panini. Per chi ancora non conosce la Marvel questo piccolo libro è una vera e proprio guida virgiliana in un paradiso fantastico che noi ragazzini nati negli anni Sessanta abbiamo vissuto desiderando tutti trasformarci in Super Eroi Marvel!  


Gordiano Lupi


Per acquistare il libro: https://www.amazon.it/dp/B0865BNNV5/


Il dottor Stranamore scava nell’età dell’ansia del cinema americano, quando la paura del nemico comunista produsse una serie di film con al centro l’incubo della bomba atomica. Alcune pellicole della prima metà degli anni Sessanta sconvolsero le coscienze mostrando come l’avvenire del pianeta fosse tra i pulsanti e le esplosioni di una tecnologia dal complesso sistema di controllo, dietro il furore delle ideologie. Kubrick rappresenta tutto questo senza pontificare o filosofeggiare, ma audacemente mettendo in scena l’ultimo capitolo della nostra commedia umana: un’immensa, sardonica, irriverente e tragica risata sull’assurdità di una razza così indaffarata a realizzare, con accanimento spesso geniale, la propria distruzione.

Tutto su un film potrebbe essere il motto di questa nuova collana di Edizioni Il Foglio, dedicata al grande cinema che ha segnato non solo la storia di un’arte, ma anche stagioni della nostra esistenza, visioni personali e collettive depositate in una memoria che ritorna per immagini ed emozioni. Sono libri per approfondire singoli film, per meglio conoscere gli aspetti segreti e nascosti di un’opera, ma anche atti d’amore per il cinema, il piacere di essere messi a parte di una passione, condividerla. Penetrare intimamente nel corpo di un film, fino quasi a provare l’illusione di riviverne la creazione, la visione, quel che accade dopo. Sentire l’effetto cinema attraverso la lettura, restare nel suo universo ed essere curiosi delle connessioni con gli altri linguaggi. E allora non si poteva cominciare meglio questa collana che con Il dottor Stranamore, il più esplosivo film di uno dei più matericamente visionari registi della storia del cinema: Stanley Kubrick. Un’irriverente rappresentazione della guerra fredda, quando l’avvenire del pianeta sembrava tra le mani di politici e militari sempre sull’orlo di una terza guerra mondiale, tra bombe atomiche, pulsanti e valigette di una tecnologia dal complesso sistema di controllo dietro il furore delle ideologie. 


Kubrick racconta tutto questo come se mettesse in scena l’ultimo capitolo della nostra commedia umana: un’immensa, sardonica, tragica risata sull’assurdità di una razza così incredibilmente indaffarata a realizzare, con accanimento spesso geniale, la propria distruzione. (Davide Magnisi)

 

 

Davide Magnisi, docente e critico cinematografico, ha collaborato con quotidiani, riviste, siti internet e rassegne cinematografiche. Ha pubblicato un volume su Stanley Kubrick (Gli orizzonti del cinema di Stanley Kubrick, 2003), due su Fernando di Leo (Di Leo calibro 9, 2017; Il cinema di Fernando di Leo, 2017) uno su Sam Mendes (Sam Mendes. Da Shakespeare a Bond, 2018) e uno su Ruggero Deodato (Cannibal Ballad, 2019), oltre ad aver preso parte a numerosi libri collettanei (Cineasti di Puglia, 2006-2007; 10 – Il cinema di Sergio Rubini, 2011; Riccardo Cucciolla, 2012; Il cinema di Domenico Paolella, 2014). Membro del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani e della Fipresci, è stato più volte giurato in festival del cinema internazionali.


Autore: Davide Magnisi

Titolo: Il dottor Stranamore, ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba

Pagine: 126

Formato 15x21

Prezzo: 12 euro

Collana “I film del foglio”



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La prima piattaforma italiana di cinema asiatico, FAREASTREAM, compie una settimana. E gli abbonati non hanno certo perso tempo: centinaia di clic, centinaia di visualizzazioni, e una TOP FIVE che, tra blockbuster e grandi classici, rispecchia perfettamente lo spirito del progetto!   


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1°- A TAXI DRIVER di Jang Hun

La mente corre a De Niro e Scorsese, certo, ma questa non è la New York degli anni ‘70: è la Seul degli anni ‘80. Jang Hun ci fa salire su un taxi e ci (ri)porta nel buio di Gwangju, dove sta per esplodere la grande rivolta popolare contro la dittatura di Chun Doo-hwan. Dieci giorni di lotta, dieci giorni di feroce repressione. Il 18 maggio 1980 rappresenta ancora una ferita aperta, nel cuore della Corea, e i DODICI MILIONI DI SPETTATORI che hanno applaudito A TAXI DRIVER lo dimostrano. Blockbuster o inno civile? Un inno civile che parla il linguaggio del blockbuster, affidandosi (tra lacrime, risate, azione) al gigantesco SONG KANG-HO: il pupillo di Bong Joon-ho da MEMORIE DI UN ASSASSINO a PARASITE.

Notorious, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare il cinema:  CULT - Viaggio a Tokyo di Yasujirō Ozu, film drammatico che parla di  distanze e di rapporti familiari che si

2°- VIAGGIO A TOKYO di Ozu Yasujiro

Per fare visita ai figli, due anziani genitori si spostano nella capitale dalla piccola città giapponese di Onomichi. Nonostante le dichiarazioni d’affetto, però, il primogenito Koichi e la sorella Shige non hanno tempo (né troppa voglia) di occuparsi di loro. Soltanto l’ex nuora Noriko, moglie di un terzo figlio disperso in guerra, li tratterà con dolcezza sincera… Incoronato MIGLIOR FILM DELLA STORIA da 350 registi di tutto il mondo, VIAGGIO A TOKYO è l’icona stessa del CINEMA GENTILE del sommo maestro OZU. Una storia semplice che diventa parabola sulle stagioni della vita. Una cronaca familiare venata d’amarezza, ed estremamente raffinata sul piano visivo, che resta per sempre negli occhi e nell’anima. La versione è quella restaurata dalla Shochiku.  


Ultimo film visto? - pagina 424

3°- CASTAWAY ON THE MOON di Lee Hae-jun

“E ora qualcosa di completamente diverso”: CASTAWAY ON THE MOON, l’ormai leggendario ASSO PIGLIATUTTO del FEFF12 (si portò a casa l’Audience Award, con una media-voto vertiginosa, e anche il bacio accademico degli accreditati Black Dragon)! Una commedia davvero unica nel suo genere, buffa e poetica, dolce e surreale, che i FAREASTERS della prima ora saranno sicuramente felici di riapplaudire e che i NEWCOMERS dovranno TASSATIVAMENTE recuperare! Un'occhiata alla trama? È la storia di due bizzarre solitudini che s’incontrano: quella dell’impassibile signor Kim, suicida fallito e moderno Robinson Crusoe su una delle isolette selvagge del fiume Han che attraversa la città di Seul, e quella della signorina Kim, una bella hikikomori in eremitaggio nella propria stanza e connessa al mondo attraverso il web…


Confessions - di Tetsuya Nakashima (2010) | JAMovie

4°- CONFESSIONS di Nakashima Tetsuya

Premiato al FEFF nel 2011 e attraversato da una colonna sonora che spazia da Bach a “Last Flowers” dei Radiohead, ecco il SUPER CULT giapponese di cui si è perdutamente innamorato MICHAEL MANN (“Un capolavoro assoluto”)! Horror? Thriller? Revenge movie? Dramma psicologico? Le catalogazioni sono tutte valide e tutte superflue, perché CONFESSIONS travalica i generi facendosi pura narrazione: il racconto, struggente e glaciale, di un omicidio e di una vendetta che diventa il racconto, feroce e spiazzante, di troppe vite bruciate... Nakashima Tetsuya, padre talentuoso di KAMIKAZE GIRLS e MEMORIES OF MATSUKO, firma un’opera d’arte che riempie gli occhi di grande cinema e non fa prigionieri.


AsianWorld.it on Twitter: "#subs "Beasts Clawing at Straws" di Kim Yong-hoon,  Corea del Sud, 2020, Commedia nera. #sottotitoli Link:  https://t.co/H1KdLadrfp… https://t.co/hKEiLarHfW"


5°- BEASTS CLAWLING AT STRAWS di Kim Yong-hoon

Quattro disperati, una dark lady sbucata dall’inferno (o dagli immediati dintorni), una borsa traboccante di soldi e un dosaggio colossale di KARMA per tutti: ecco gli ingranaggi che muovono, con implacabile e beffarda precisione, questo bellissimo (nerissimo) PULP. Un divertente minuetto di sangue e di coltelli, di umorismo e di cinismo, di flashback e di flashforward, dove la smania di denaro porta clamorosamente sfiga e dove l’unica regola è NON FIDARSI MAI DI NESSUNO. L’esordiente Kim Yong-hoon dirige con mano felice il suo stesso adattamento del romanzo d’origine e ci regala, oltre al film-rivelazione dell’ultimo FEFF  (menzione speciale della Giuria dei GELSI BIANCHI), una folgorante JEON DO-YEON: mai così cattiva, mai così irresistibile!




L'ultima fatica letteraria dello storico Michele Eugenio Di Carlo prima fra le novità' e nono in classifica Bestseller in Storia moderna e contemporanea dal XVIII al XX secolo.

L'immagine può contenere: spazio al chiuso, il seguente testo "Michele Eugenio Di Carlo La fine del Regno delle Due Sicilie con prefazione di Pino Aprile SUD DA BORBONE A BRIGANTE"

Dalla prefazione di Pino Aprile:

Questo è un libro importante e molto ben fatto. Il suo valore consiste nella chiarezza dell’esposizione, nella puntualità (pignoleria, direi) del richiamo alle fonti e nell’intelligenza della scelta dei brani da confrontare e che riescono a riassumere molto. Insomma, sarebbe da segnalare e leggere solo perché un buon libro lo merita.

Invece, il maggior pregio di questo volume (senza nulla togliere all’autore) è in una domanda: perché un lavoro serio come questo non lo abbiamo da tempo immemorabile a cura di titolari di cattedra di storia? Perché il raffronto con quel che scrivevano autori “dalla parte dei vinti” è stato (salvo poche, tardive e lodevoli eccezioni) scartato a priori? Perché la versione degli sconfitti, da Giacinto de’ Sivo (“Storia delle Due Sicilie”), a Raffaele De Cesare (“La fine di un Regno”) è stata irrisa, ritenuta inattendibile per definizione, perché portatrice del presunto risentimento dei vinti che potrebbe deformare i fatti.

Così, la “buona storia” è la versione dei vincitori, che narra come necessaria per un alto fine una invasione senza dichiarazione di guerra, tace di paesi rasi al suolo, di rappresaglie con migliaia di morti, centinaia di migliaia di incarcerati e deportati senza accusa, processo e condanna. Quando chi compie queste cose non vince, ma perde, si parla di crimini di guerra. I fatti e i modi sono sempre quelli nel percorso dell’umanità, cambia il modo di raccontarli: un passo avanti verso una più alta civiltà, nella versione dei vincitori, un delitto in quella dei vinti.

I Vicerè

Così, la storia ufficiale finisce per giustificare le cose come sono andate, perché così “dovevano” andare e il racconto attribuisce ai protagonisti un disegno chiaro a loro e, a posteriori, a tutti (salvo botte di sincerità quale quella di Oliver Cromwell, che quando gli chiesero come avesse costruito le basi della potenza britannica, rispose, più o meno, che nessuno va così lontano come chi non sa dove sta andando). Mentre il racconto dei vinti avviene attraverso l’arte: la letteratura (“I viceré” di Federico De Roberto, “La conquista del Sud” di Carlo Alianello, “Il gattopardo” di Tomasi di Lampedusa…), la musica (basterebbe “Brigante se more” di Eugenio Bennato e Carlo D’Angiò), la pittura (si pensi a Goya, a Picasso con Guernica…).


Di Carlo riprende la voce inascoltata dei vinti (e molti ce ne sarebbero da aggiungere, dal duca di Maddaloni, unitarista deluso, costretto a scrivere sotto lo pseudonimo di Ausonio Vero, all’anonimo autore dell’imperdibile “Pro domo mea”, che io stesso scoprii essere Vincenzo degli Uberti, grande intellettuale e ingegnere unitarista ferito e ridotto al silenzio) e analizza le cose che raccontano. Lo fa affiancando alle loro opere quelle degli storici ufficiali, come detto. Con il risultato, senza alcuna forzatura, che i vinti dissero la verità. Si può discutere del dettaglio, come sempre, ma meritavano ascolto e considerazione.

Per più di qualcuno non è una sorpresa. Basterebbe ricordare quanto pubblicato, con dovizia di documentazione e indubitabile adesione ai principi risorgimentali, dal professor Umberto Levra (docente di storia risorgimentale all’Università di Torino; presidente dell’associazione degli storici risorgimentali; presidente del Museo del Risorgimento italiano) sul fine della Società di Storia Patria voluta dai Savoia nel 1830 e governata in modo ferreo, almeno sino al 1920, da due-tre famiglie: riscrivere di volta in volta la storia per adeguarla alle politiche sabaude; distruggere i documenti compromettenti, rendere inaccessibili altri. E ancor oggi, stando a quanto affermato da Alessandro Barbero sul dovere degli storici (e non solo), i sabaudisti (questo il nome in cui si riconoscono quei custodi dei fatti nostri) devono mirare a formare uno spirito nazionale più che dirci cosa accadde davvero. Tanto che sia Levra che il colonnello Cesare Cesari, direttore degli Archivi militari, autore di una importante storia del Brigantaggio pubblicata un secolo fa, scrivono che i documenti così “patriotticamente” distrutti sono talmente tanti, che non si potrà mai più ricostruire come andarono veramente le cose. Cesari specifica che il danno maggiore è proprio la sparizione di testimonianze e carte parlanti dei vinti.

Eppure, quello che fu prodotto e divulgato in quegli anni bui, da contemporanei (pur fra tante difficoltà: persecuzioni, processi, esilio, sparizione di opere pronte alla stampa, distruzione di tipografie), è stato accantonato.

E non lo meritava.

Alcuni storici di professione, da Roberto Martucci (“L’invenzione dell’unità d’Italia”) a Eugenio Di Rienzo (“Il Regno delle Due Sicilie e le potenze europee”, pur con un successivo rifacimento al ribasso, poco comprensibile), a John A. Davis (“Napoli e Napoleone. L’Italia meridionale nelle rivoluzioni europee 1780-1860”) ne avevano già dato atto; e tracce possono trovarsi in tanti altri, storici e no, da Paolo Mieli a Carlo Azeglio Ciampi. Ma l’opera di Michele Eugenio Di Carlo è sistematica, onestamente distaccata, senza timori di “sembrare” squilibrata, quindi preconcetta, in un senso o nell’altro.

Un lavoro che sarà di aiuto a quanti, senza pregiudizi, o persino avendone, vorranno guardare con la distanza del tempo quegli avvenimenti. Sarebbe ora, perché fu allora, mentre si fingeva di unificarlo, che il Paese venne diviso fra un Nord acchiappatutto e un Sud ridotto a colonia, con la nascita, a mano armata, della Questione meridionale.

Se lo si volesse unire, bisognerebbe ripartire da dove il filo, anche della verità, fu spezzato.

Il libro di Di Carlo è molto utile.

 

P.S.: il testo è immediatamente disponibile sia in formato cartaceo che e-book al seguente link:

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I primati del Regno delle Due Sicilie che resero Napoli una vera capitale

 

La letteratura calcistica (come il cinema) non ha mai avuto grande fortuna in Italia, nonostante scrittori come Arpino abbiano celebrato i mondiali del 1974 con Azzurro tenebra e registi come Pupi Avati abbiano girato Ultimo minuto. In ogni caso escono libri e film dedicati al calcio, che continuo a leggere e vedere, fedele a un’antica passione che mi tiene avvinto alla palla di cuoio almeno dal 1965, in pratica da quando ho l’età della ragione. Tra le ultime belle cose lette e viste posso citare il libro di racconti Undici metri di Vitali e Targa, il film La partita di Francesco Carnesecchi, ma anche l’ennesima visione de L’allenatore nel pallone di Sergio Martino e de I due maghi del pallone con Franco e Ciccio. Soffermiamoci su Undici metri - Storie di rigore, che gode della bella prefazione di Darwin Pastorin (altro grande scrittore di calcio) e analizza con lo strumento narrativo il ruolo del penalty nella storia del calcio. Vitali e Targa partono dal primo tiro dagli undici metri per giungere ai giorni nostri, prendono in considerazione il trionfo di Berlino, i tiri mondiali di Baresi, Baggio e Di Biagio, il cucchiaio di Totti, le imprese di Zico, Platini, Falcao e Gullit. Sessanta racconti dove trovano spazio persino due bidoni come Caraballo e Toffoli, con i loro errori macroscopici, accanto alle autoreti del mitico Comunardo Niccolai. Sessanta racconti di passione calcistica, una vera manna per gli appassionati, perché forse non tutti sanno che il calcio di rigore è nato nel 1890, sette anni prima che nascesse la Juventus, e che prima si giocava senza il penalty, fino a quando un portiere irlandese non propose l’innovazione alla federazione britannica. Un’invenzione che non portò fortuna al povero Mc Crum (questo il cognome del vecchio carneade), morto dimenticato da tutti, tradito dalla moglie, alcolizzato e pieno di debiti. Un’altra curiosità la leggiamo sul miglior rigorista di sempre, un tal Giampiero Testa (nato a Magenta nel 1938), che ha giocato soltanto in serie C ma non sbagliava mai un penalty, perché diceva: “Per tirare bene un calcio di rigore si deve avere la testa libera!”. E visto il cognome che portava ci riusciva. Gli autori narrano la storia di Antonin Panenka, che ha giocato fino a 45 anni nelle serie minori, ma viene ricordato per il rigore decisivo del 1976 contro la Germania, primo penalty a decidere una competizione importante. Si rammenta il cucchiaio di Totti del 2000 contro l’Olanda, ma anche il rigore assurdo di Platini in uno stadio pieno di morti, in Belgio, contro il Liverpool. Benito Lorenzi, invece, non tutti lo conosceranno, era Toscano come me e lo chiamavano Veleno, quando nel 1957 con un rigore al limone (leggete il libro per capire!) fece fuori l’odiato Milan indossando la maglia nerazzurra. Un libro imperdibile per tutti gli appassionati di calcio.

Cristian Vitali - Maurizio Targa
Undici metri - Storie di rigore

Sensoinverso Edizioni  - Euro 17 – pag. 290

Gordiano Lupi


Scrubs, il ritorno: la proposta di Zach Braff e Donald Faison Humanities e TV 


Marc Greene è a casa, la moglie gli chiede della sua giornata in ospedale, solo le cose belle però. Marc accenna alla paziente terminale assistita poche ore prima, ma la moglie ha già cambiato discorso e parla di sé. Divorzieranno dopo un paio di puntate.

John Dorian è al suo primo giorno di lavoro in ospedale. Naturalmente qualcuno gli vomita addosso e un'infermiera lo rimprovera.  L'ultimo baluardo di autostima cade quando il suo tutor comincia a chiamarlo con sopranomi, subito adottati dallo staff.  John per fortuna ha un'immaginazione fuori dal comune...

Di là per una incredibile serie di circostanze una bambina è gravemente ammalata ed è senza diagnosi. Ma non è ciò a gettare nel panico Gregory House, quanto l'aver finito le sue medicine. Naturalmente le due cose sono collegate, su un piano sconosciuto a familiari e dottori e la soluzione si presenterà prima del fondo del nuovo tubetto di pillole.

Se nessuno parla di parcella, siamo certi che non stiamo assistendo a qualcosa di reale: è fiction.

I telefilm hanno occupato, a ragione, il vuoto lasciato dai romanzi d'appendice, introducendo nuovi stilemi nell'immaginario collettivo ed hanno ereditato, oggi, la mitopoiesi peculiare del cinema. Le serie televisive godono di una doppia vita: quella "on air", quando trasmesse, e quella, ormai dominante, dell'home video. C'è una differenza tempistica di consumo a netto vantaggio del secondo canale di fruizione. Gli episodi, una volta posseduti in copia, sono visti, o forse è meglio dire autosomministrati, in dosi anche massicce.

L'home video ha negli ultimi vent'anni cambiato supporti (vhs, cd, dvd, streaming) rendendo possibile la diffusione del cinema d'autore e quindi del gusto. I telefilm sono diventati sempre più accurati nell'intreccio, più verosimili nelle situazioni e meno fumettistici (con tutto il rispetto per questo tipo di letteratura). Il numero e la durata degli episodi si è ipertrofizzato, il pubblico ha adottato alcune serie e personaggi, trasformandoli in cult, infine la competizione ha richiesto una narrazione sempre più specchio dello spirito dei tempi. Ne è nato un nuovo genere d'intrattenimento e considerando il sottogenere dei medical drama, ossia genere in cui i protagonisti sono medici o strutture ospedaliere, si può scomodare il termine edutainement (educational entertainment), presente da tempo anche su PubMed in tema di pedagogia medica.

Il medical drama, già nel 1964 aveva attirato l'attenzione del profondo studioso della comunicazione Marshall McLuhan (la comunicazione è il medium, il medium è la comunicazione). La citazione è d'obbligo: "Uno degli esempi più vividi delle qualità tattili dell'immagine televisiva si ha nell'esperienza medica."  Durante una lezione di chirurgia a circuito chiuso, gli studenti provarono uno strano effetto: non avevano avuto la sensazione di assistere a un'operazione ma di eseguirla, come se avessero avuto in mano il bisturi.  L'immagine televisiva, suscitando un appassionato desiderio di coinvolgimento profondo in ogni aspetto dell'esperienza, crea l'ossessione per il benessere fisico. L'improvvisa apparizione alla TV dei drammi sui medici e sugli ospedali, che reggono la concorrenza dei western, è perfettamente naturale." (Understanding Media: The Extensions of Man).

I medical drama d'inizio secolo, il XXI, per l'esattezza, nati, come ogni buona tendenza, negli ultimi anni del secolo scorso, ossia quelli prodotti negli ultimi quindici anni, seguono questa direzione, mostrando, però, operazioni sulle emozioni e sulla psiche. Hanno cinematograficamente masticato, digerito ed espulso la figura del medico contemporaneo, rendendolo de facto, mediaticamente superato. Sul medico del futuro se ne parlerà in altra occasione.

Un segno dei tempi, non solo catodici o cinematografici, ma sociali: l'arte, lo show, lo spettacolo ha saputo raccontare, virtuosamente, la poco virtuale via aesculapia, necessaria agli studenti di medicina e ai professionisti delle relazioni d'aiuto, per giungere nel mondo della sofferenza.

I medici, statistiche alla mano, di Usa, Europa e Canada, soffrono, o meglio "patiscono", "subiscono", la salute (attesa, persa, pretesa, difesa e alterata).

Gli studi sulla qualità di vita eseguiti su studenti di medicina, medici in formazione e professionisti avviati, descrivono una realtà, in numeri, molto vicina più alle usanze di Sparta che di Coo: il 50% degli studenti di medicina vive il burnout per almeno un anno di durata, soprattutto nei primi anni di studio. Il 12% di questi ha idee suicidarie. Il burnout diminuisce con l'età e la carriera, ma aumentano i dati sulla depressione.

Chiunque abbia masterizzato un cd o un dvd ha ben chiaro il termine burnout: il disco è ormai inutile, non è leggibile, da buttare o destinare all'arte del riciclo artistico per chi ha velleità artistiche. Non servire più allo scopo. Dopo anni di sacrifici e di servizio. 

Negli anni '70, Freudenberger richiamò l'attenzione su una delle possibili manifestazioni dello stress lavorativo, introducendo il termine di "Burnout". Questo termine indica una condizione di disagio rilevata tra lavoratori impegnati nelle cosiddette professioni di aiuto, specialmente nell'area socio-sanitaria. Il termine proveniva dal giornalismo sportivo degli anni trenata e serviva ad indicare un atleta in forma ma incapace di ripetere performance eccellenti. Ossia mens fiacca in corpore sana. Nei primi anni Ottanta a occuparsi in modo scientifico fu la Maslach, che mise appunto un questionario ancor oggi usato.

Volendo inquadrare la situazione in termini bio-psico-sociali, la retribuzione economica influisce, l'organizzazione del lavoro conta, o almeno si sperava avessero il peso maggiore nel fenomeno. Invece, leggendo longitudinalmente gli studi dal 1995 al 2009, il vero depauperamento patogeno è quello invisibile delle emotività e delle prospettive di vita. La banca della psiche si trova a contrarre, necessariamente, debiti con i pazienti cui non può far fronte, se non indebitandosi, dopo aver attinto alle proprie singole risorse. Potrebbe sembrare insolita l'analogia finanziaria ma è qui il punto: l'economia del Sé intersecata con l'ecologia della Salute. E nei medical drama gli psichiatri non recitano mai più di cinque battute di seguito (gli psicologi non compaiono, sono figure da fiction criminologiche, non sul mondo della salute).

L'insorgenza della sindrome negli operatori sanitari segue generalmente quattro fasi:

  1. entusiasmo idealistico, 
  2. stagnazione, 
  3. frustrazione (burnout), 
  4. apatia e morte professionale. 

Durante la terza fase, frustrazione, il pensiero dominante dell'operatore è di non essere più in grado di aiutare nessuno, con profonda sensazione d'inutilità e di non rispondenza del servizio ai reali bisogni dell'utenza. Il vissuto dell'operatore è un vissuto di perdita, di svuotamento, di crisi di emozioni creative e di valori considerati fondamentali fino a quel momento. Come fattori di frustrazione aggiuntivi, intervengono lo scarso apprezzamento sia da parte dei superiori, sia da parte degli utenti, nonché la convinzione di un'inadeguata formazione per il tipo di lavoro svolto.

Il soggetto frustrato può assumere atteggiamenti aggressivi (verso se stesso o verso gli altri) e spesso mette in atto comportamenti di fuga (allontanamenti ingiustificati dal reparto, pause prolungate, frequenti assenze per malattia).

Le serie che più incarnano la medicina di oggi, mettendone in risalto luci e, per fortuna, ombre, torniamo al burnout, sono tre: ERScrubs e Dr. House. Lo diciamo subito: il preferito è Scrubs, per cui ne parleremo meno.

ER: una ragione per tutte, non esiste un via migliore, solo prospettive. E' una metafora del patto sociale e delle sue varianti. Per questo, ad esempio, la direzione di un reparto d'emergenza è proposta come una leadership problematica, esportabile in altri contesti. Non c'è morale in ER, ma un arcipelago di posizioni etiche tutte comprensibili, ossia immedesimabili. Le ragioni degli altri e, a pensarci bene, perché non dovrebbe essere così? Per questo non c'è spazio per tutto ciò che non è previsto da un manuale di medicina interna o chirurgia. La follia, la stravaganza, il bizzarro o il comico, seppur non voluto: lo psichiatra della prima serie si scompensa a sua volta. I medici e il personale possono suicidarsi, il problema si pone per solo due volte, ma la parola "depressione" è bandita. Mai, anche sentire espressioni del tipo, "sono giù". Ai parenti invece è permesso. Notevole, quasi paradigmatica, la descrizione della difficile relazione fra un'infermiera e la madre affetta da disturbo bipolare, che rifiuta le cure. Una pentola scoperchiata che fa riflettere sul burnout di una delle professioni sanitarie più difficili: il parente.

La prossemica è rarefatta, codificata nei protocolli, percorsi esistenzialmente in via unidirezionale, tanto poi sono i malati a inoculare la diversità, l'imprevisto nella routine del defibrillatore.

Nei medical drama lo svuotamento delle risorse emotive è una situazione abbastanza comune, anzi c'è un vero e proprio turnover, a turno uno dei protagonisti o dei comprimari si sente vuoto. Generalmente in Scrubs viene risolta nel giro di una puntata, mentre in ER il tema dell'anedonia da vita a vere e proprie sottotrame, in cui si approfondiscono le psicologie dei personaggi giustificando la cosa con disturbi caratteriali (sociopatia latente) o con dipendenze (alcool, sesso) mai direttamente imputabili alla professione. Un perenne 11 settembre, in cui nessuno ha il vizio del fumo (noto invece che nella realtà i medici sono fra i più accaniti fumatori). Le regressioni sono invece onnipresenti in Scrubs, alleggerite da un tono grottesco e ritmo comico. Di fatto delle microcrisi cui il sistema colleghi/amici riesce, fortunatamente, sempre a far fronte.

Dr. House nasce in questo stato: passivo. Ha bisogno di uno staff ipomaniacale per carburare. Leader indiscusso e inarrivabile, quindi senza canali comunicativi che non passino per l'esercizio della propria unicità, reale o presunta: niente di nuovo, problemi di normale leadership.

House è cinico - come tanti medici -. Ha l'empatia al minimo - idem -, è sociopatico - idem -. Beve - come molti dottori -, prende delle sostanze per tenersi su - !?! -. Non fuma, non è Jan Gabin, in fondo. E' bravo, come un fumetto. Piace, in alcuni reparti ospedalieri ci si organizza per vederlo con i colleghi del turno notturno. Perché? Non ha sensi di colpa ed è diretto nel centrare il senso di colpa dei suoi collaboratori. Non è mandato in Alaska perché capace di non uccidere mai nessuno.

Qualcuno ha definito la serie "uno show che parla di zebre"!

House è se stesso quando non s'interessa dell'empatia e i suoi sottoposti, guarda caso, sbagliano quando comunicano troppo con i pazienti. Tutti mentono, potrebbe essere, infatti, il sottotitolo dell'intera serie. Naturalmente occorre un grande lutto per restituire, catarticamente, l'umanità all'erudito e, a modo suo ascetico, claudicante.

Se House è il male, perché continuano a stargli accanto? E' una domanda retorica per tutti quelli che vivono del proprio lavoro, tuttavia, ipotizzando un mondo in cui ogni medico possa scegliere il proprio lavoro, potremmo affermare che il discriminante sia la solitudine. Solitudine da alta specializzazione, da competizione, da ottundimento dell'emotività. Se passi una vita a far bene e meglio, nonostante tutto, puoi ritrovarti isolato con quel Venerdì di malato che, seppur bravo a parlare la tua lingua, non avrà la tua storia, la tua prospettiva. Umanizzare la medicina è un'espressione tautologica: la medicina origina dagli uomini. In termini evolutivi la comunità è lo sviluppo vincente per la sopravivenza del genere umano. E' umano anche sentirsi soli. A confronto con qualcosa di più grande (la sofferenza) ci si spaventa o ci si meraviglia. Meglio la seconda, anche se stillata in dvd.

Luigi Starace - Media Consultant della Cattedra di Psichiatria dell'Università di Foggia e della Società Italiana di Psichiatria Sociale (Sips). Direttore Responsabile IJPC. Direttore Responsabile Stigmamente Italian Jorunal of Medical Humanities. Su gentile concessione dell'autore, IJPC 2009; 1, 2.

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