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Scrubs, il ritorno: la proposta di Zach Braff e Donald Faison Humanities e TV 


Marc Greene è a casa, la moglie gli chiede della sua giornata in ospedale, solo le cose belle però. Marc accenna alla paziente terminale assistita poche ore prima, ma la moglie ha già cambiato discorso e parla di sé. Divorzieranno dopo un paio di puntate.

John Dorian è al suo primo giorno di lavoro in ospedale. Naturalmente qualcuno gli vomita addosso e un'infermiera lo rimprovera.  L'ultimo baluardo di autostima cade quando il suo tutor comincia a chiamarlo con sopranomi, subito adottati dallo staff.  John per fortuna ha un'immaginazione fuori dal comune...

Di là per una incredibile serie di circostanze una bambina è gravemente ammalata ed è senza diagnosi. Ma non è ciò a gettare nel panico Gregory House, quanto l'aver finito le sue medicine. Naturalmente le due cose sono collegate, su un piano sconosciuto a familiari e dottori e la soluzione si presenterà prima del fondo del nuovo tubetto di pillole.

Se nessuno parla di parcella, siamo certi che non stiamo assistendo a qualcosa di reale: è fiction.

I telefilm hanno occupato, a ragione, il vuoto lasciato dai romanzi d'appendice, introducendo nuovi stilemi nell'immaginario collettivo ed hanno ereditato, oggi, la mitopoiesi peculiare del cinema. Le serie televisive godono di una doppia vita: quella "on air", quando trasmesse, e quella, ormai dominante, dell'home video. C'è una differenza tempistica di consumo a netto vantaggio del secondo canale di fruizione. Gli episodi, una volta posseduti in copia, sono visti, o forse è meglio dire autosomministrati, in dosi anche massicce.

L'home video ha negli ultimi vent'anni cambiato supporti (vhs, cd, dvd, streaming) rendendo possibile la diffusione del cinema d'autore e quindi del gusto. I telefilm sono diventati sempre più accurati nell'intreccio, più verosimili nelle situazioni e meno fumettistici (con tutto il rispetto per questo tipo di letteratura). Il numero e la durata degli episodi si è ipertrofizzato, il pubblico ha adottato alcune serie e personaggi, trasformandoli in cult, infine la competizione ha richiesto una narrazione sempre più specchio dello spirito dei tempi. Ne è nato un nuovo genere d'intrattenimento e considerando il sottogenere dei medical drama, ossia genere in cui i protagonisti sono medici o strutture ospedaliere, si può scomodare il termine edutainement (educational entertainment), presente da tempo anche su PubMed in tema di pedagogia medica.

Il medical drama, già nel 1964 aveva attirato l'attenzione del profondo studioso della comunicazione Marshall McLuhan (la comunicazione è il medium, il medium è la comunicazione). La citazione è d'obbligo: "Uno degli esempi più vividi delle qualità tattili dell'immagine televisiva si ha nell'esperienza medica."  Durante una lezione di chirurgia a circuito chiuso, gli studenti provarono uno strano effetto: non avevano avuto la sensazione di assistere a un'operazione ma di eseguirla, come se avessero avuto in mano il bisturi.  L'immagine televisiva, suscitando un appassionato desiderio di coinvolgimento profondo in ogni aspetto dell'esperienza, crea l'ossessione per il benessere fisico. L'improvvisa apparizione alla TV dei drammi sui medici e sugli ospedali, che reggono la concorrenza dei western, è perfettamente naturale." (Understanding Media: The Extensions of Man).

I medical drama d'inizio secolo, il XXI, per l'esattezza, nati, come ogni buona tendenza, negli ultimi anni del secolo scorso, ossia quelli prodotti negli ultimi quindici anni, seguono questa direzione, mostrando, però, operazioni sulle emozioni e sulla psiche. Hanno cinematograficamente masticato, digerito ed espulso la figura del medico contemporaneo, rendendolo de facto, mediaticamente superato. Sul medico del futuro se ne parlerà in altra occasione.

Un segno dei tempi, non solo catodici o cinematografici, ma sociali: l'arte, lo show, lo spettacolo ha saputo raccontare, virtuosamente, la poco virtuale via aesculapia, necessaria agli studenti di medicina e ai professionisti delle relazioni d'aiuto, per giungere nel mondo della sofferenza.

I medici, statistiche alla mano, di Usa, Europa e Canada, soffrono, o meglio "patiscono", "subiscono", la salute (attesa, persa, pretesa, difesa e alterata).

Gli studi sulla qualità di vita eseguiti su studenti di medicina, medici in formazione e professionisti avviati, descrivono una realtà, in numeri, molto vicina più alle usanze di Sparta che di Coo: il 50% degli studenti di medicina vive il burnout per almeno un anno di durata, soprattutto nei primi anni di studio. Il 12% di questi ha idee suicidarie. Il burnout diminuisce con l'età e la carriera, ma aumentano i dati sulla depressione.

Chiunque abbia masterizzato un cd o un dvd ha ben chiaro il termine burnout: il disco è ormai inutile, non è leggibile, da buttare o destinare all'arte del riciclo artistico per chi ha velleità artistiche. Non servire più allo scopo. Dopo anni di sacrifici e di servizio. 

Negli anni '70, Freudenberger richiamò l'attenzione su una delle possibili manifestazioni dello stress lavorativo, introducendo il termine di "Burnout". Questo termine indica una condizione di disagio rilevata tra lavoratori impegnati nelle cosiddette professioni di aiuto, specialmente nell'area socio-sanitaria. Il termine proveniva dal giornalismo sportivo degli anni trenata e serviva ad indicare un atleta in forma ma incapace di ripetere performance eccellenti. Ossia mens fiacca in corpore sana. Nei primi anni Ottanta a occuparsi in modo scientifico fu la Maslach, che mise appunto un questionario ancor oggi usato.

Volendo inquadrare la situazione in termini bio-psico-sociali, la retribuzione economica influisce, l'organizzazione del lavoro conta, o almeno si sperava avessero il peso maggiore nel fenomeno. Invece, leggendo longitudinalmente gli studi dal 1995 al 2009, il vero depauperamento patogeno è quello invisibile delle emotività e delle prospettive di vita. La banca della psiche si trova a contrarre, necessariamente, debiti con i pazienti cui non può far fronte, se non indebitandosi, dopo aver attinto alle proprie singole risorse. Potrebbe sembrare insolita l'analogia finanziaria ma è qui il punto: l'economia del Sé intersecata con l'ecologia della Salute. E nei medical drama gli psichiatri non recitano mai più di cinque battute di seguito (gli psicologi non compaiono, sono figure da fiction criminologiche, non sul mondo della salute).

L'insorgenza della sindrome negli operatori sanitari segue generalmente quattro fasi:

  1. entusiasmo idealistico, 
  2. stagnazione, 
  3. frustrazione (burnout), 
  4. apatia e morte professionale. 

Durante la terza fase, frustrazione, il pensiero dominante dell'operatore è di non essere più in grado di aiutare nessuno, con profonda sensazione d'inutilità e di non rispondenza del servizio ai reali bisogni dell'utenza. Il vissuto dell'operatore è un vissuto di perdita, di svuotamento, di crisi di emozioni creative e di valori considerati fondamentali fino a quel momento. Come fattori di frustrazione aggiuntivi, intervengono lo scarso apprezzamento sia da parte dei superiori, sia da parte degli utenti, nonché la convinzione di un'inadeguata formazione per il tipo di lavoro svolto.

Il soggetto frustrato può assumere atteggiamenti aggressivi (verso se stesso o verso gli altri) e spesso mette in atto comportamenti di fuga (allontanamenti ingiustificati dal reparto, pause prolungate, frequenti assenze per malattia).

Le serie che più incarnano la medicina di oggi, mettendone in risalto luci e, per fortuna, ombre, torniamo al burnout, sono tre: ERScrubs e Dr. House. Lo diciamo subito: il preferito è Scrubs, per cui ne parleremo meno.

ER: una ragione per tutte, non esiste un via migliore, solo prospettive. E' una metafora del patto sociale e delle sue varianti. Per questo, ad esempio, la direzione di un reparto d'emergenza è proposta come una leadership problematica, esportabile in altri contesti. Non c'è morale in ER, ma un arcipelago di posizioni etiche tutte comprensibili, ossia immedesimabili. Le ragioni degli altri e, a pensarci bene, perché non dovrebbe essere così? Per questo non c'è spazio per tutto ciò che non è previsto da un manuale di medicina interna o chirurgia. La follia, la stravaganza, il bizzarro o il comico, seppur non voluto: lo psichiatra della prima serie si scompensa a sua volta. I medici e il personale possono suicidarsi, il problema si pone per solo due volte, ma la parola "depressione" è bandita. Mai, anche sentire espressioni del tipo, "sono giù". Ai parenti invece è permesso. Notevole, quasi paradigmatica, la descrizione della difficile relazione fra un'infermiera e la madre affetta da disturbo bipolare, che rifiuta le cure. Una pentola scoperchiata che fa riflettere sul burnout di una delle professioni sanitarie più difficili: il parente.

La prossemica è rarefatta, codificata nei protocolli, percorsi esistenzialmente in via unidirezionale, tanto poi sono i malati a inoculare la diversità, l'imprevisto nella routine del defibrillatore.

Nei medical drama lo svuotamento delle risorse emotive è una situazione abbastanza comune, anzi c'è un vero e proprio turnover, a turno uno dei protagonisti o dei comprimari si sente vuoto. Generalmente in Scrubs viene risolta nel giro di una puntata, mentre in ER il tema dell'anedonia da vita a vere e proprie sottotrame, in cui si approfondiscono le psicologie dei personaggi giustificando la cosa con disturbi caratteriali (sociopatia latente) o con dipendenze (alcool, sesso) mai direttamente imputabili alla professione. Un perenne 11 settembre, in cui nessuno ha il vizio del fumo (noto invece che nella realtà i medici sono fra i più accaniti fumatori). Le regressioni sono invece onnipresenti in Scrubs, alleggerite da un tono grottesco e ritmo comico. Di fatto delle microcrisi cui il sistema colleghi/amici riesce, fortunatamente, sempre a far fronte.

Dr. House nasce in questo stato: passivo. Ha bisogno di uno staff ipomaniacale per carburare. Leader indiscusso e inarrivabile, quindi senza canali comunicativi che non passino per l'esercizio della propria unicità, reale o presunta: niente di nuovo, problemi di normale leadership.

House è cinico - come tanti medici -. Ha l'empatia al minimo - idem -, è sociopatico - idem -. Beve - come molti dottori -, prende delle sostanze per tenersi su - !?! -. Non fuma, non è Jan Gabin, in fondo. E' bravo, come un fumetto. Piace, in alcuni reparti ospedalieri ci si organizza per vederlo con i colleghi del turno notturno. Perché? Non ha sensi di colpa ed è diretto nel centrare il senso di colpa dei suoi collaboratori. Non è mandato in Alaska perché capace di non uccidere mai nessuno.

Qualcuno ha definito la serie "uno show che parla di zebre"!

House è se stesso quando non s'interessa dell'empatia e i suoi sottoposti, guarda caso, sbagliano quando comunicano troppo con i pazienti. Tutti mentono, potrebbe essere, infatti, il sottotitolo dell'intera serie. Naturalmente occorre un grande lutto per restituire, catarticamente, l'umanità all'erudito e, a modo suo ascetico, claudicante.

Se House è il male, perché continuano a stargli accanto? E' una domanda retorica per tutti quelli che vivono del proprio lavoro, tuttavia, ipotizzando un mondo in cui ogni medico possa scegliere il proprio lavoro, potremmo affermare che il discriminante sia la solitudine. Solitudine da alta specializzazione, da competizione, da ottundimento dell'emotività. Se passi una vita a far bene e meglio, nonostante tutto, puoi ritrovarti isolato con quel Venerdì di malato che, seppur bravo a parlare la tua lingua, non avrà la tua storia, la tua prospettiva. Umanizzare la medicina è un'espressione tautologica: la medicina origina dagli uomini. In termini evolutivi la comunità è lo sviluppo vincente per la sopravivenza del genere umano. E' umano anche sentirsi soli. A confronto con qualcosa di più grande (la sofferenza) ci si spaventa o ci si meraviglia. Meglio la seconda, anche se stillata in dvd.

Luigi Starace - Media Consultant della Cattedra di Psichiatria dell'Università di Foggia e della Società Italiana di Psichiatria Sociale (Sips). Direttore Responsabile IJPC. Direttore Responsabile Stigmamente Italian Jorunal of Medical Humanities. Su gentile concessione dell'autore, IJPC 2009; 1, 2.

L’ultimo film di Spielberg ha scontentato un po’ tutti. Illogico, senza continuity, prevedibile, ridondante.
Se la chiave di lettura, una fra le tante, fosse quella di osservare il film come un’allucinazione della bambina protagonista atta a recuperare la figura di un padre lontano e indifferente ?
Certo non è il primo film di presunta science-fiction del regista, né la prima volta che parla di famiglia…

 

ntroduzione

"Volevo rendere questo film simile ad un prisma, in cui ognuno può vedere una sfaccettatura diversa. Quindi ho cercato di renderlo più aperto possibile all'interpretazione [..] ho messo insieme tanti elementi, in modo che ognuno possa avere la sua opinione."
(Spielberg per intervista a La Repubblica )

 

Gli artisti sono il limite di loro stessi. Dopo l’apice entrano in ridondanza.

Non tutti però. Alcuni smettono mentre fra gli altri, quelli che continuano, i più coscienti ( o prudenti ) realizzano le opere successive come "variazioni sul tema". In buona fede si potrebbe pensare che idea che fa botteghino non si cambia, sarebbe anche semplice in fondo. Inoltre aggiungere qualcosa di originale nelle opere successive sarebbe sempre più difficile perciò il prodotto proposto sostanzialmente non cambia.

Invece con malizia ( analitica ? ) si potrebbe pensare che il core, il nucleo caldo sia ancora scoperto e che l’artista senta ancora il bisogno di esporlo. Per raffreddarlo, consegnarlo, permettere che venga scoperto ?

Non è cosi importante appurarlo invero, o almeno non così primario, urgente come il produrlo.

Tale è l’opera , non quale l’artista.

 

La science-fiction e il regista

Ma cosa è per Spielberg la fantascienza:

"La fantascienza è una vacanza che mi tiene lontano da tutte le regole della logica narrativa. E' una vacanza dalla fisica di base. Ti permette di lasciarti alle spalle tutte le imposizioni e di volare. Noi, come esseri umani, non possiamo volare e invidiamo gli uccelli per questo. Io invidio Tom Cruise perché pilota aeroplani e jet mentre io non posso farlo, ho troppa paura. Per la maggior parte di noi, la fantascienza è l'unica possibilità di volare veramente. E' per questo che amo tanto questo genere e ci ritorno sempre, perché non dà limiti all'immaginazione. La sfida, in questo caso, è stata quella di far sembrare comunque credibile il film. Sia io che David Copp, lo sceneggiatore, abbiamo fatto in modo di far sembrare i personaggi più reali e normali possibile. Detto questo, la fantascienza rappresenta per i registi una grande fuga." ? (intervista per La Repubblica)

La fantascienza dei film di Spielberg è "magica". Per questo scontenta i puristi del genere e in fondo un po’ annoia. Se ci fosse altro sotto però ?

" A parte i problemi di originalità, a volte le vicende sono tanto forzate e innaturali da sfiorare il ridicolo. Avrebbero dovuto intitolare il film "Una Serie di Fortunati Eventi" (tanto per rifarsi al titolo di un recente film tratto dai libri di Lemony Snickets): l’eroe di turno e la sua famiglia non vengono scalfiti nemmeno dalla più drammatica delle catastrofi. Per una serie di fortunate coincidenze la famiglia Ferrier è l’unica a trovare un’automobile. E si tratta di un'auto magica, visto che riesce magicamente a passare senza intoppi attraverso un fittissimo ingorgo autostradale e riesce a restare illesa anche quando viene parcheggiata di fianco ad un quartiere e ad una abitazione che rimangono quasi completamente distrutti. ". Daniele Toninelli

"La mia vera natura ha voluto che facessi 'E.T.' e 'Incontri ravvicinati del terzo tipo', ma lo spettatore che è in me ha sempre voluto fare 'La Guerra dei Mondi'. Cosa c'è di più elettrizzante di una guerra tra la razza umana e gli extraterrestri?". Spielberg

" Spielberg non si accontenta della fine degli invasori alieni rovinando quel poco che restava da rovinare chiudendo il film con un quadretto di famiglia, viva e vegeta fino alla terza generazione grazie a chissà quale miracolo, che più che portare sollievo fa urlare di rabbia lo spettatore. Già ci siamo dovuti bere il fatto che gli alieni siano venuti sulla Terra senza prendere le più elementari precauzioni chimico-batteriologiche (potevamo bercela ai tempi di Wells, nel 2005 è ben più difficile), ma il lieto fine a tutti i costi, riconciliazione padre/figlio compresa, è stato davvero troppo. " Silvio Sosio.

I tempi di narrazione sono quelli di un bambino, lo spazio e gli oggetti propri degli adulti.

Invero Spielberg è ormai un veterano della dissimulazione del significante narrativo: usare la fantascienza o la fantasia per poter parlare in sfondo della famiglia, o meglio del suo modello medio borghese "american way of life" ( un uomo deve fare cio’ che un uomo deve fare, il coraggio ma non a sfondo catartico proveniente dall’amore-incontro-scoperta dei figli o il ritrovsamento del prorpio status di figlio )

To tell the truth molta della produzione western dagli anni 30 ai 50 era imperneata di tematiche e conflitti a forte caratterizzazione edipica. Ciò è tanto vero che il Leone d’oro di quest’anno, a distanza di 50 anni dall’epoca d’oro del far west, l’ha vinto il regista Ang Lee ( lo stesso di Hulk e La tigre e il dragone ) con un film sui cow-boy gay (Brokeback Mountain )

Spielberg trasla dal latte del far west alla via lattea del so far far away. I fuorilegge braccati e agognanti il Messico nascosti dai figli dei braccanti ( e quindi oggetto di sfida verso le pre-generazioni ) per esempio,diventano alieni maldestri che provano a fare una collect call ( chiamata a carico del destinatario ) su Alpha Centauri e affini, capaci tuttavia di realizzare ( garantendo questa volta una gratifica preclusa ai loro omotetici in bianco e nero ) i piccoli sogni rompi monotonia dei figli, come volare con la bici al chiaro di luna . Non è quindi solo un finale meno mortifero a far meritare l’etichetta di ottimista al nostro cineasta. Qualcuno a lui vicino si spingerà anche oltre, ribaltando le posizioni, non solo giustificando la ribellione figliare bensì innalzandola a crociata contro l’abisso, il lato oscuro. Figli cosi forti o impauriti dalla realtà che è possibile accettare ma non assimilare:

- Luke! Io sono tuo padre —

Luke Skywalker, capace di interagire autonomamente con La Forza cosmica, sente che è la verità, che quello è suo padre, ma preferisce lasciarsi cadere dentro un lungo tunnel terminante nel vuoto più che seguirlo. Guerre Stellari: a volte non c’è spazio più lontano della stanza affianco. Dall’ottimismo all’autonomia di un figlio, di una generazione, come si comprende bene dalle parole di Walter Murch ( montatore da tre Oscar ) parlando di Lucas: " Così si disse: okay, se è troppo scomodo politicamente come soggetto attuale, trasferirò la storia altrove e la farò accadere in una galassia lontana nel tempo e nello spazio. I Ribelli sono i nordvietnamiti e L’Impero gli Stati Uniti. E se possiedi la Forza, non importa quanto sei piccolo, puoi sconfiggere il grande potere oppressivo." Guerre Stellari è la versione di George Lucas di Apcalypse Now." ( Il cinema e l’arte del montaggio )

Illuminante, no ?

 

Una considerazione gruppale

Un film o una serie di film dello stesso regista permettono più che l’etichettatura del singolo artista, una collocazione antropologica del filtrato-lavoro nel background sociale di riferimento. Escludendo la funzione filtro ( alfa in termini bioniani ) del cineasta e focalizzando non sul "perché" ma sul "come" i piani di interpretazione si moltiplicano, consentendo, nella riflessione psicodinamica della interfaccia artista-opera—spettatori, l’emergere dele realtà gruppali inconscie, determinanti, oltre alla maestria talentosa della troupe, il successo del film. Inquadrabile apparentemente in un assunto di base bioniano di attacco-fuga La Guerra dei due mondi non ha riscosso il successo sperato in Europa ( eppure Walsh, lo scrittore del romanzo anti colonialista da cui i film sono stati tratti e i vampiri sono forieri di copyright europeo ). Di fatto, per il modo in cui il nemico è debellato la meta trama è riconducibile all’assunto di base di dipendenza: i nemici sono sconfitti dal sangue infetto che risucchiano e da un elemento invisibile agli uomini, il microbo. Anche la voce narrante in epilogo sentenziante che : " Nessuna morte è vana " mi induce ad affermarlo. C’è di fatto il miracolo ed è ciò che anche lo spettatore in sala mormora umoristicamente.

 

La filmografia spielberghiana, la ricorrenza.

- Sci-fi:

1977-Incontri ravvicinati del terzo tipo: un gruppo eterogeneo di persone riceve l’incipit da entità extra terrestri per un monte su cui sbarcheranno. Il protagonista abbandona tutto per arrivarci compresi moglie e figli che gli danno dello strambo. Riunirà nel close encounter, tanto da venir adottato dagli alieni e andar via con loro dopo una metamorfosi ad acta

1982-ET: un alieno simpatico viene protetto da un gruppo di ragazzini in bici. Cucciolo perso nella periferia della Via Lattea tra cuccioli della provincia americana saprà meravigliarli e grazie al loro aiuto-protezione tornerà a casa.

2001-AI: dopo millenni solo NY rimane a documentare i nostri giorni e nel profondo di quello che era l’Atlantico gli esseri oblunghi e iridescenti del Futuro trovano il pinocchio-androide addormentato mentre era alla ricerca della mamma-fata turchina. Potranno grazie alla tecnologia fargli rivivere il passato e finalmente potrà festeggiare il suo compleanno "in famiglia" ( film nato da un plot imbastito da Kubrick in cui il finale da mezzora è totalmente spielberghiano ).

2002-Minority Report: Sempre un Tom Cruise tormentato per la perdita della sua famiglia e intento ad evitare che altri soffrano per omicidi futuri ( i futuri criminali sono arrestati nel presente prima che commettano il crimine ).

- Non sci-fi :

1991-Hook: Peter Pan non riesce a staccarsi dal cellulare e il figlio si lascia adottare da Uncino. Per riconquistarlo il satirello volante dovrà tornare a fare scherzi da prete, pardon, da peter-pan, essere accettato dagli altri marmocchi e mostrare il suo coraggio in duello. Non volava perché non fantasticava più. Uncino seduce il figlio di peter grazie al baseball…

1997-Salvate il soldato Rayan: una dozzina di soldati viene mandata in missione (suicida) dietro le linne nemiche per recuperare dopo lo sbarco in Normandia il quarto figlio arruolato, paracadutista disperso, e unico ancora in vita. Mamma America non vuole che una mamma del missisipi pianga ancora. Inutile dire che è l’unico a salvarsi, dalle brutture della guerra e dalla morte.

Insomma condita con salse diverse ma la pietanza dal sapore quasi winnicottiano sembrerebbe esserci e lo stesso regista nell’ intervista già citata ammette che non è lui quello capace di far film "disperati". Sarà vero, ma la miopia c’è…

 

Contesto famigliare

Che il vero nucleo narrativo del film sia la famiglia, con tutte le difficoltà che comporta metterle in scena qualcuno se n’è accorto :

Spielberg fa leva, esattamente come in molti temevamo, sui sentimenti più epidermici e deteriori, riducendo il tutto a un apologo moraleggiante sulla ritrovata unità familiare di fronte alle avversità. Malgrado in varie interviste dai toni trionfalistici e autocelebrativi il "più grande regista della storia del cinema" (permettetemi di dissentire ) abbia dichiarato il contrario, c’è soltanto un vaghissimo accenno alla verità proclamata da Wells, cioè la lotta per la sopravvivenza di due razze .Massimo Manganelli

Parlare di rapporti familiari per un regista, in genere, non è una passeggiata:

" …I vissuti personali del regista lo inducono ad adottare un atteggiamento prudente.Egli preferisce non proporre una " terapia familiare " che inevitabilmente lo farebbe entrare in risonanza con la propria famiglia d’origine o con quella acquisita. Le problematiche familiari, pur presenti nei vari film, vengono affrontate con l’utilizzo di un piccolo espediente. La famiglia viene smembrata, frazionata in tanti sottosistemi e l’attenzione focalizzata su alcune diadi …" ( L’analista in celluloide, Ignazio Senatore )

Tom Cruise conferma che è una tattica vincente:

" Adoro il modo in cui Steven Spielberg affronta il concetto di famiglia nei suoi film "

 

La Trama del film

Protagonista del film si chiama Ray Ferrier, lavora come operaio specializzato nei cantieri navali del New Jersey, è un padre separato inaffidabile e un po' sbruffone incaricato di passare con i due figli il classico week-end dove, in ossequio alla legge di Murphy, tutto ciò che può andar male lo farà. Dopo le prime anomalie atmosferiche - miriadi di fulmini che cadono nello stesso posto senza alcun tuono -, il buon Ray s'imbatte con stupefatto terrore in un oggetto non identificato che affiora dal suolo stradale ed inizia a polverizzare la folla circostante senza pietà di sorta. Da quando la minaccia si manifesta in tutta la sua gravità il padre irresponsabile tenterà d'impegnarsi al meglio per far continuare a respirare due rampolli che lo sopportano a malapena, e nel tentativo non si risparmierà nessuna furbata di sorta. L'avanzata inarrestabile dei tentacolari tripodi extraterrestri proseguirà in un'escalation di panico, colorandosi di inedite tinte vampiresche durante l'incontro della famiglia in fuga con un superstite ormai ottenebrato dalla sindrome della resistenza a tutti costi.

 

L’ allucinazione della bambina, una proposta di lettura

A mio avviso uno dei metatesti possibili de La Guerra dei Mondi è proprio quello del sogno immaginario della bambina figlia del protagonista.

Sulla base della mia esperienza personale in casa famiglia per minori in affido non trovo insolito che la figura paterna assente o indifferente al bambino sia idealizzata fino alla onnipotenza.

Non potrebbe allora accadere che una bambina "ricodifichi" tutto il mondo circostante per poter assimilare e metabolizzare un padre che seppur umano sembri vivere su un pianeta lontano ( come sembra lontano, ma non lo è il New Jersey da Boston ) ?

"Nel bimbo n on c’è disitinzione tra rappresentazione, degli oggetti reali, e affetto: l’affetto si rivela quale primo prodotto mentale, e come tale entra a far parte ,determinante, delle incipienti capacità rappresentazionali. Gli oggetti che il bimbo si rappresenta sono mutevoli e, per noi, confusi: un oggetto può al contempo essere anche un altro. Ciò si evidenzia nel disegno spontaneo dei bambini. Possono disegnare un affare strano che conteporaneamente è un albero, ma anche un cane; e per loro è contemporaneamente tutti e due. Bisogna essere a contatto col bambino, per entrare dentro questo suo mododi vedere: non si può chidergli " Cosa hai disegnato ?", perché allora lui ci risponderà in termini compiacenti alla nostra struttura adulta. (Imbasciati-Fondamenti psicoanalitici della psicologia clinica)

C’è il viaggio alla fine del quale tutto è risolto e il tripode è attaccabile non perché il suo campo di forza è stato forzato o annullato ma perché il suo abitante-manovratore è malato.

Gli Altri di Altrove sono impercettibili come fantasmi e come tali scendono dal cielo, ma ingombranti come angoscie essi emergono dal sottosuolo terrorizzando e dissolvendo letteralmente gli adulti. Eppure diventano totalmente digeribili e assimilabili in sembianze e atteggiamenti ( guardano foto, girano la ruota della bici… ) agli occhi della bambina protagonista.

Gli alieni sembrano avere un atteggiamento persecutorio nei confronti dei due fuggitivi, padre e figlia, soprattutto quando questi si credono al sicuro, rintanati nello scantinato. Di fatti gli alieni tornano più volte ad ispezionare lo scantinato fino a scovare gli umani. ( altra lettura: vengono scoperti dopo che il padre aveva soppresso il suo opposto ed è quindi costretto ad affrontare i mostri più grandi. Non ci riesce e la figlia urlante ( ma è una costante nel film) e tutt’altro che paralizzata dal terrore ( sono proprio queste le scene in cui, dall'inquadratura e dal taglio di ripresa, evincerebbe che è la bambina il fulcro, l’occhio immobile del ciclone ) viene catturata. Al padre non resta che farsi catturare compiendo l’atto catartico del sacrificio, cui seguirà, senza che il neo eroe l’abbia voluto (deus ex machina) la distruzione del tripode, dal suo interno. Gli uomini prigionieri in cesti giganti saranno di nuovo liberi e senza un graffio dopo un volo di 10 metri.

L’unica figura femminile adulta del film è una amica di papà e sembra anche simpatica. Peccato non riesca a seguirlo mentre stanno salendo su un traghetto-salvatore.

Non ci riuscirà metà della gente presente sulla riva. Ma la trama non volge al cinismo e anche il battello salvatore viene affondato. Riescono a salvarsi in pochi…

Nella scena del battello emerge l’altruismo del fratello maggiore e ancora l’impotenza del padre. Nel nodo narrativo successivo il figlio si separa dal padre per unirsi all’esercito in lotta. E’ una separazione strana per i canoni hollywoodiani: non c’è ne investitura ne attrito. L’addio viene interrotto dalle urla della bimba, raccolta da altri e quasi potata via per la distrazione paterna, o per le eccessive( ? ) attenzioni date al figlio. Non c’è addio fra i fratelli, ne la bimba accennerà alla cosa in seguito.

Le scene ambientate nello scantinato a detta di diversi critici sono accessorie e non necessarie al plot, ma come da studi sugli effetti del cinema negli spettatori ( schermi violenti- Imbasciati ) le parti considerate più " brutte " sono anche le più ricche di spunti al dibattito. Ecco dunque che osservando ancora questa sequenza si nota che la bambina è l’unica a vedere le sembianze degli alieni che scendono giù in perlustrazione: il padre e lo sconosciuto lottano, in silenzio fra loro per un fucile. Il viso della bambina viene inquadrato in primo piano: l’occhio che spia da una fessura gli Altri è illuminato, quello rivolto ai due adulti che lottano è in ombra. E’ libera di vedere ora, mentre per tutto il film il padre le aveva vietato di guardare sia i tripodi giganti sia la distruzione intorno ripetendole " tieni gli occhi su di me" . La bimba osserva gli alieni curiosare maldestramente fra foto di famiglia e biciclette : nessun orrore ( gli alieni hanno abitudini vampiresche ) e il clima di suspence si stempera in Gianni e Pinotto.

Per un cinefilo, ma non solo, un tale cambio di climax è inaccettabile. Per un bimbo, no…

Per tutto il film il padre si oppone alla violenza mostrata : prima lascia cadere la pistola per poter riavere la figlia bloccata in macchina, poi cerca in tutti i modi di evitare che il figlio maggiore vada a combattere i mostri, di seguito blocca lo sconosciuto prima che spari ad un alieno. Risulta paradossale allora che decida di strangolare lo sconosciuto perché rumoroso quando basterebbe imbavagliarlo. Lui non vorrebbe ma è per "salvare la bambina" ( gli alieni sono ipersensibili ai suoni e possono rintracciarli facilmente ).

Chiude gli occhi e tappa le orecchie della piccola, va nell’altra stanza e ritorna dopo un paio di minuti. Lo sconosciuto,guerrafondaio paranoico e primitivo , l’opposto del padre, quello che si era anche offerto di badare alla bimba se il genitore fosse perito non c’è più, non compare più. Possono dormire tranquilli ora. Ma un grosso occhio spia alieno li scova comunque: al padre ora tocca affrontare , dopo il suo opposto nello scantinato, il grande tripode, vampiro e persecutore, in scalfibile…in campo aperto. Un altro "se stesso" da affrontare ?

Dopo la distruzione fortuita ( una serie di granate innescate senza la volontà del padre ) del tripode i due raggiungono sani e salvi la città in cui vive la madre. Termina il viaggio: la città è sicura, non è stata distrutta pur essendo invasa.

E’ qui che un ‘altra invisibilità si concretizza: i batteri ammorbano gli alieni, ma questo si scoprirà solo dopo e solo grazie all’epilogo del narratore. Il padre ha in braccio la figlia, è protettore ormai, non più indifferente a lei e alle sue allergie. E’ lui a scoprire e indicare ai militari che il campo di forza introno ai mostri di acciaio non c’è più. Migliaia di militari guardinghi ma non sagaci, si direbbe. E’ fatta i mostri sono attaccabili. E’ vittoria. E’ anche felicità perché tutti sono vivi e raccolti nella casa materna, anche il fratello maggiore scampato ad un’esplosione devastante.

La grande invasione, la grande paura capace di muovere — commuovere gli adulti…

Solitudine più isolamento uguale allucinazione ?


 di infanti reali. Una proposta di lettura del film "La guerra dei mondi"


Luigi Starace


Manfredonia – E’ una bella giornata di sole autunnale e Siponto in questo periodo, in una anonima domenica di fine ottobre, appare ancora più radiosa. Raggiungiamo Fernando Muraca nel suo albergo; ci accoglie con un sorriso, manipolando fra le mani uno strano aggeggio color piombo: “E’ un antistress che mi ha regalato mio figlio” commenta. Di lì a poco avrei notato che non ne avrebbe fatto largo uso, perlomeno in nostra presenza: “buon segno” penso fra me e me, vuol dire che non lo stiamo annoiando.

Partiamo dal film, perché La Terra dei Santi, perché Manfredonia? “Sono cinque anni che lavoro a questo film, ho iniziato con la collaborazione di Monica Zapelli, sceneggiatrice de “I cento passi”. La trama vede protagoniste tre donne, un giudice, la moglie di un boss e sua sorella. Il film che parla di ‘ndrangheta non vuole raccontare tanto i traffici e le gesta di questa organizzazione ma vuole dare una visione antropologica del fenomeno: perché una donna meridionale che darebbe la vita per il proprio figlio, decide ad un certo punto di “donarlo” all’organizzazione mafiosa? Il film doveva essere girato in Calabria ma lì abbiamo trovato le porte chiuse, qui in Puglia invece avete una bella realtà, l’Apulia Film Commission accoglie e sponsorizza molto volentieri progetti di questo genere, così abbiamo trovato terreno fertile per la realizzazione del progetto. La scelta di Manfredonia è stata dettata da una ragione molto semplice: morfologicamente la vostra città assomiglia molto a Vibo Valentia, dove sono nato. Manfredonia con il suo paesaggio, il mare, il promontorio garganico mi ricorda molto i luoghi dove ho trascorso la mia infanzia e dove è ambientato il film”.

A parte le similitudini morfologiche, cosa accomuna noi manfredoniani agli abitanti di Vibo Valentia, dal punto di vista antropologico? “Tutte le popolazioni meridionali sono accomunate da una grande sofferenza, quella di vivere in territori che sono sottoposti ad una grande violenza che si chiama mafia, che impedisce loro di esercitare appieno la propria libertà. Nelle nostre città, non siamo pari, c’è chi ha più libertà di intraprendere e c’è chi invece deve rendere conto ad altri per mettere a frutto i propri talenti. In Calabria, Sicilia, Campania, Puglia le mafie hanno il loro quartier generale che poi diffonde i suoi tentacoli in tutta Europa. Il sistema mafioso si sostituisce allo Stato, garantendo ai propri affilati sicurezza e divenendo, in un certo senso, un sistema di collocamento a tal punto che, come dicevo, anche le donne sono portate in modo acritico ad accettarne le regole immolando i propri figli”.

Parliamo di Fernando Muraca, quando nasce la sua vocazione? “La mia storia di professionista del cinema è legata alle mie scelte di vita. Non ho mai avuto questo sogno da bambino, è capitato. Ho imparato fin da piccolo a mettere a frutto i miei talenti, sono convinto che se compi questo esercizio progettualmente alla fine questo porta alla piena realizzazione dei propri sogni. Stavo girando il mio primo cortometraggio, ad un certo punto dovevo riprendere il volto della protagonista, mentre giravo mi sono reso conto che non mi vedevo più, ero completamente immerso nell’attimo presente. Questo ha provocato in me una gioia immensa, di piena realizzazione, così ho pensato: se questa cosa mi rende così felice vuol dire che questa è la mia vocazione”.

C’è stato qualche momento in particolare nella sua vita durante il quale avrebbe preferito mollare tutto e fare un passo indietro? “Il mondo del cinema, si sa, ha delle dinamiche molto complesse, è dura, e a volte i tempi non sono maturi per accogliere e apprezzare il tuo lavoro. Sì, ho attraversato un momento di sofferenza molto particolare, è difficile capire cosa fare quando finalmente sei riuscito a realizzare il sogno della tua vita (diventare regista ndr) e sei convinto di aver realizzato un buon prodotto che però viene rifiutato in tutti i festival in cui lo presenti. E’ quello che è capitato a me; non riuscivo a capire perché il mio film veniva rifiutato ovunque lo presentassi anche se si trattava di un buon lavoro. In quel momento di crisi sono stato spinto ad andare avanti, mi ha aiutato molto la fede, il mio rapporto epistolare con Chiara Lubich (fondatrice e leader del Movimento dei Focolari), conclusione se non avessi perseverato e avessi abbandonato tutto, ora non sarei qui. Cinque anni più tardi, lo stesso film ha riscosso un successo non indifferente. Semplicemente quando lo avevo presentato la prima volta la critica e il pubblico non erano pronti ad accoglierlo. Nel nostro lavoro a volte accade di anticipare i tempi, bisogna solo saper aspettare”.

So che lei ha una grande fede, come si può riuscire nel mondo di oggi, a trasmettere il volto di Dio attraverso un film? “L’uomo è un essere dotato di interiorità, a questa cosa ognuno di noi dà un nome, c’è chi la riferisce a Dio, chi ad un’altra entità. Io ho ricevuto una formazione cristiana, sono nato in Calabria e qui l’essere cristiano è qualcosa di naturale. Quindi il fatto di essere cristiano è prima di tutto legato a questo. Mi identifico nei valori della famiglia, dell’amicizia, dell’accoglienza che secondo me sono alla base di ogni comunità sociale e questo non può essere ininfluente nelle mie opere. Cerco di immettere nelle mie opere un senso spirituale, qualcosa che rimandi a qualcos’altro che non vediamo e che non si può descrivere. Quando racconto le storie, cerco l’uomo e Gesù è l’uomo. Dio è nelle persone che incontro, nei miei collaboratori, nei miei personaggi. Essere credente significa provare un amore sconfinato per l’uomo”.



Qual è il film che ha girato che porta sempre nel cuore, il figlio prediletto? “Il primo e l’ultimo, questo che sto girando adesso. Nel mio primo cortometraggio “Ti porto dentro”, ho rappresentato tutti i semi di una poetica che poi avrei sviluppato nel tempo in tutti i miei lavori. Ti porto dentro racconta la storia della buona morte: che cosa succede ad un uomo quando giunge alla fine della sua vita e deve abbandonare questa terra? Ero andato al funerale di una persona, che mi colpì profondamente; quel momento sembrava una festa, si viveva sì il dolore del distacco ma al contempo quel giorno ci diceva di un uomo che passando nel mondo, aveva lasciato cose meravigliose. Ispirandomi a questo momento ho scritto una storia d’amore che doveva realizzarsi proprio nel momento in cui la vita finisce”.

 75^ edizione della Mostra del Cinema, il Premio della Critica SIC (Sindacato Critici Cinematografici) quest’anno è stato assegnato al documentario Still Recording di Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub (Siria).

Non lo trovate nè sulla pubblicazione della settimana della Critica ne sul programma perché aggiunto dopo, un last minute vincente visti i risultati e umanamente molto significativo.

Il docufilm siriano copre gli anni 2011_2014 e racconta la vita dei giovani siriani, i registi e i loro amici. Alcuni diventano cecchini, altri continuano ad allenarsi atleticamente sotto le bombe dei mig, altri pensano che con la pace potranno fare i musicisti. Nel frattempo la storia come la si è vista dai telegiornali internazionali, la guerra civile e lo smantellamento di un popolo nobile e ricco.

Still recording
Il lavoro è stato girato quasi tutto in presa diretta, 450 ore di vita filmate in una nazione in cui il benessere è finito di colpo e le olive diventano più essenziali della tecnologia che c’è e anche tanta. Un contesto che invita alla riflessione profonda sul mondo e sui filtri della informazione. Non ci sono buoni o cattivi ma solo sopravvissuti in Still Recording, tutti con un profondo desiderio di rimanere in Siria e non diventare profughi. Un film crudo ma che picchia molto di più sui pre-giudizi dello spettatore, non siriano. La dimostrazione che la videocamera sa essere più risolutiva di un fucile.

Far Conoscere attraverso il cinema contesti che facilmente si etichettano e sintetizzano con etichette è uno dei compiti nobili del cinema (il primo rimane quello di far ridere)

Still Recording
Luigi Starace, Cinemadonia.it

Creare. Tirare una linea nera. Processo irreversibile. Di seguito compaiono anche le linee bianche. La linea iniziale è divenuta un corso d'eventi. Quelli che appaiono, quelli che si desiderano, quelli cha si sa vedere. Poi si cambia foglio. Bianco ...

Hanno cercato in tanti di descrivere cosa succede, quando si guarda un film. Altri ne hanno descritto le interrelazioni fra mente del regista e quella dello spettatore, rifoderando la psico-dinamica di qualunque matrice col vellutino da cinema d'essai. Sembrava ci fossero solo i Gabbard (Cinema e psichiatria, 1999) Glen e Krin, dimenticando i lavori pionieristici di Metz (Cinema e psicoanalisi, 1977) e Grossini (Cinema e follia: stati di psicopatologia sullo schermo, 1984), Christian e Giancarlo. Una rondine Musatti (Cinema e psicoanalisi, 1950), non fa tendenza, si diceva...

I Corti sul lettino», Cinema e Psicoanalisi al Palazzo delle Arti -  CorrieredelMezzogiorno.itOra La mente altrove rivela uno staffi. tutto nostrano, tutto attento, tutto accurato. Già una prima riflessione si impone. La geografia fa notare le diverse provenienze. Superato anche il provincialismo. In più i saggisti provengono da aree diverse del sapere: medicina, psicologia, filosofia, cinematografia. Diversità anche nella disciplina portante, la psicoanalisi, come sottolinea Andrea Sabbadini nell'introduzione, a vanto di un lavoro che immaginiamo faticoso e costante, da quando, cioè, l'associazione Psiche e Immagine si è formata, a metà degli anni novanta. Il libro nasce dopo dieci anni, frugando già dalle prime pagine il primo dei dubbi: era necessario? 

Ancora una riflessione campanilistica, prima di sviscerare meglio il manufatto. Nelle prossime edizioni dell'European Psychoanalytic Film Festival, di cui Sabbadini è padre, non ci saranno molti contributi italiani. Non per esclusione, anzi, per evitare un'abbondanza. Perché lasciarci sfuggire, allora, tutto questo patrimonio culturale e non curarcene? Perché aspettare che sia sempre qualcun altro oltralpe od oltremare a scoprirlo e valorizzarlo? Anche questa "cattiva" abitudine italiana è fugata da La mente altrove

CICLO 2017 "Cinema e Psicoanalisi" - Centro Psicoterapia Milano SPP

C'è di più. In pochi anni, la situazione editoriale si è ribaltata e così si è scritto tanto, troppo, forse sulle relazioni fra cinema mondo della psiche: basta consultare un elenco da librerie on line per contare ormai circa una cinquantina di titoli a tema. La mente altrove risponde implicitamente e intelligentemente ad una devastante domanda che, alla Lubrano, nascerebbe spontanea: 

"Ma cos'altro c'è da dire su psiche e cinema? "

La mente altrove, se fosse un film, sarebbe uno di quelli in cui il finale è mostrato nel prologo. Resta da capire come ci si arrivi. Il viaggio, temuto etereo, fra il non ancora capito e il cos'altro non ancora detto si concretizza man mano. 
Non si è obbligati a seguire le orme dei saggi brevi e paradossalmente la libertà di non aderenza fa compiere il cambio di prospettiva ricercato. Che il cinema sia cinema e non altro dal cinema rimane, infatti, un'affermazione del tutto opinabile. Radente ai percorsi già scoperti e acclarati ma non identico: lavorare di cesello è un'arte difficile. 
Non mancano saggi di trattazione (ormai) classica sulla rappresentazione dello psichiatra, dello psicoanalista o della malattia stessa, con citazioni mai banali e capaci di incuriosire anche i più smaliziati. Luigi Pavan (La psichiatria attraverso il cinema) offre, con una panoramica degli studiosi, una riflessione sulla psichiatria e i film che la ritraggono a vario titolo, insieme ad una ricca cronologia dei film, passando anche per i dimenticati Risi (Diario di una schizofrenica ) e Mann (Manhunter, frammenti di un omicidio ). Termina con un'accurata carrellata sul suicidio. 
Massimo De Mari (Il cinema e la psicoanalisi) descrive lo stato dell'arte della relationship psiche-cinema approfondendo l'analisi sul lavoro di Gabbard (la semplicità espositiva, per i non addetti ai lavori, un valore aggiunto di questo saggio).
Articoli di mediazione clinica risultano quello di Simona Argentieri (Prigionieri del passato: la nevrosi si guerra nella rappresentazione cinematografica) sugli shock bellici e in cui si parla del cinema di guerra non senza ironia e quello di Riccardo Dalle Luche (Cinema e delirio), che affronta l'esperienza delirante come un'applicazione della teoria della mente attraverso il cinema. Infine, Alberto Sacchetto (La donna dai tre volti e Psyco: rappresentazione cinematografiche del disturbo dissociativo dell'identità) fra etica psicoanalitica e criminologia lavora su una frontiera ancora non del tutto definita. Un articolo tutto da scoprire con la consapevolezza che, terminata la caccia alle streghe, si possa coraggiosamente incrociare lo sguardo acuto, ma quantico, della scienza psi-made con il non altrimenti definibile come "essere altro". E che tutti gli sforzi di conquistare la normalità ci perdonino...
Sull'altro fronte, ossia la mente del regista, ma saggiamente senza fare autoptico, Stefano Marino (L'orrore della generazione: tre film di Nanni Moretti) rilegge Moretti, nelle opere degli anni ottanta, accuratamente senza timori o campanilismi ideologici, sviscerandone l'esistenzialismo e la vitalità implosiva.
In tutto sono oltre cinquanta i titoli di film citati, una trentina quelli trattati in modo più approfondito. Da leggere in serie o in parallelo, magari i meno metodici aprendolo a caso, il libro tiene. Può allora succedere che ci si trovi immersi in una chicca per chi non ha dimenticato il Partendone, come il saggio di Umberto Curi (Il piacere delle immagini) vera palestra per gli amanti della speculazione filosofica. Oppure nella ricerca dell'identità dell'uomo del terzo millennio di Elisabetta Marchiori (Io: Chi? Riflessioni sull'identità attraverso il cinema) che, senza erudizione, intreccia letteratura e psicoanalisi. Articolo questo paradigma del modus operandi dell'intero libro: eterogeneità di fonti, multipli approcci, nessuna risposta confezionata. Piattaforma, non vademecum.
é quindi un libro pensato per un determinato pubblico di lettori, ma capace di suscitare interesse in tutti gli amanti del cinema che fa riflettere, o forse più semplicemente di tutti quelli che amano ripensare ai film visti. 

Cinema e psicoanalisi

Un'altra considerazione. La mente altrove è suddivisa i tre sezioni: "Dolly", "Zoom" e "Close-up". 
Nella sezione "Dolly" si instaura un ponte con gli studi precedenti. Nella sezione "Zoom" sono raccolti i contributi prevalentemente clinici e di valenza gruppale-mediatica. Nella sezione "Close-up" i saggi vertono prevalentemente sulla funzione della memoria. Un'ipotetica sequenza di ripresa di stretto taglio (ma potremmo dire anche eziologia ) psicanalitico. 

Nell'insieme, infine, i saggi propongono, in meta-lettura, un modus indagandi cibernetico con quattro "dimensioni" proposte. Nessuna novità, ma l'averle sapute avvicinare e l'averle lette così una dopo l'altra, mi spingono a riassumerle così: 

- la trasduzione della tridimensionalità in linguaggio espressivo. 
Vittorio Volterra (Trauma e stress in psichiatria e nel cinema) propone, attraverso un'accurata analisi dell'isomorfismo cinema-mente, buoni spunti originali su lessico delirante e montaggio. Un segmento del sapere da scoprire ma esistente e interagente al di là delle posizioni psicopatologiche e commerciali dei cineasti. 
Elena Grassi, Massimo De Mari (Psyco: la costruzione visiva del doppio) invece trattano lo stile di regia come elemento portante della narrazione. La frontiera e il suo epigone, senza scomodare il giano bifronte di turno. La conferma che occorre del buon cinema per mettere in moto il pensiero. Basculamento continuo fra visione e visioni...

- La temporizzazione dell'esperienza visiva.
Ignazio Senatore (Dei navigatori della mente: Freud, Antonioni, Wenders ed altri eroi) effettua una ricerca filologica del montaggio risalendo alle radici di questa innovazione e dell'impatto sulle menti dei primi spettatore, ultimo esempio storico di tabula rasa. Il più prolifico scrittore tematico italiano fornisce spunti da approfondire. 
Alberto Spadoni (A proposito di Fellini: le radici riminesi) ritorna sul rapporto memoria-evento. Niente è a caso. Ricordi in acrobazie fra vecchio e nuovo, far da sé e insieme, fra ciò che resta e ciò che fertilizzava...

- Lo stato emotivo dello spettatore. 
Massimo De Mari (L'isola che non c'è e l'idoneità al volo) offre una chiave epistemologica all'adolescenza. Rivedere, rivedersi, oppure dire che si trova ciò che si ha.  
Nel lavoro di Pietro Roberto Goisis (Un'ora sola... ma di magia) ci si affaccia ad una vetrata. Si vede, si passa attraverso Liseli, la protagonista, Alina, la figlia e regista e Roberto, Goisis, il narratore di se stesso. Spettatore e contenitore per cui tutto succede dentro e per gemmazione anche nel lettore. Coraggioso ma costoso processo. Il prezzo per la propria umanità (ri)scoperta.
Lo studioso si mette da parte per rimaterializzarsi solo al termine di un percorso che è un lasciarsi attraversare dall'evento (...e ancora si è costretti a parlare di buon cinema per transmigrare poi verso la psiche).
Maria Vittoria Costantini, Paola Golinelli (Memorie e ri-costruzioni in psicoanalisi e nel cinema: Strange days e Betrayal) articolano uno scritto ricco di spunti, spiegando semplicemente concetti difficili, riuscendo a intessere un filo logico dalle neuroscienze alla stanza di analisi, tramando sulla mansione. Uno degli interventi più stuzzicanti e quindi interattivi del libro. Per approcciarlo è necessaria una conoscenza di base dei film sulla psicoanalisi, tuttavia ciò non è discriminante in modo assoluto. Gli ingredienti sono sempre i soliti, come in una pietanza. é l'arte del cuoco a renderla gustosa, desiderabile o semplicemente nutriente. Ecco, siamo di fronte ad una delicata pietanza di "nouvelle cuisine". 

- La dimensione gruppale dell'esperienza visiva.
Gian Piero Brunetta (Il cinema nei territori della psiche) sviscera gustosi aneddoti da cui emerge che il cinema sarebbe una macchina infernale, stimolatore degli istinti, plasmatore di masse; insomma, se il valore è dato dai nemici, il cinema ne ha vantato di eccelsi: Chiesa e Igiene. Il cinema come ambiente fecondante, insomma, in cui l'umido è sostituito dal visivo, l'atto dallo scatenarsi delle sequenze e la frizione dal ricordo ripescato in tranquillità. 
In seconda battuta Brunetta (... E splendean le stelle) risale alla mitopoiesi, prima che Hollywood scoprisse di essere tale. Il divismo cinematografico al femminile nei primi vent'anni del secolo XX: ingrandimento su ciò che la parola " vintage" oggi sintetizza. 
Infine Luciano Arcuri (Il cinema in una società che cambia) mette in luce l'utilizzo stigmatizzante del cinema contestualizzato alla rappresentazione mass-mediatica. 

Il difetto, per ultimo: la copertina meno accattivante degli ultimi anni.


Luigi Starace

N.28 - Psicoanalisi e Cinema: “Come in uno specchio

Massimo De Mari, Elisabetta Marchiori, Luigi Pavan (a cura di )

La mente altrove 
Cinema e sofferenza mentale 


Casa editrice FrancoAngeli
Collana psicoanalisi e psicoterapia analitica, diretta da Valeria Egidi 

    Indice:

      Andrea Sabbadini, Presentazione
      Elisabetta Marchiori, Massimo De Mari, Introduzione

      Parte I. Dolly, uno sguardo d'insieme
      Luigi Pavan, La psichiatria attraverso il cinema
      Massimo De Mari, Il cinema e la psicoanalisi
      Gian Piero Brunetta, Il cinema nei territori della psiche
      Luciano Arcuri, Il cinema in una società che cambi
      Umberto Curi, Il piacere delle immagini
      Elisabetta Marchiori, Io: chi? Riflessioni sull'identità attraverso il cinema

      Parte II. Zoom: analisi ravvicinante del rapporto tra psiche e cinema
      Simona Argentieri, Prigionieri del passato: la nevrosi si guerra nella rappresentazione cinematografica
      Gian Piero Brunetta, ... E splendean le stelle
      Giovanni Colombo, Ida Bertin, Il viaggio nel cinema e in psicoterapia
      Riccardo Dalle Luche, Cinema e delirio
      Vittorio Volterra, Trauma e stress in psichiatria e nel cinema
      Ignazio Senatore, Dei navigatori della mente: Freud, Antonioni, Wenders ed altri eroi

      Parte III. Close up : Primi piani su film e registi
      Massimo De Mari, L'isola che non c'è e l'idoneità al volo
      Maria Vittoria Costantini, Paola Golinelli, Memorie e ri-costruzioni in psicoanalisi e nel cinema: Strange days e Betrayal
      Pietro Roberto Goisis, Un'ora sola... ma di magia
      Alberto Sacchetto, La donna dai tre volti e Psyco: rappresentazione cinematografiche del disturbo dissociativo dell'identità
      Elena Grassi, Massimo De Mari, Psyco: la costruzione visiva del doppio
      Stefano Marino, L'orrore della generazione: tre film di Nanni Moretti
      Alberto Spadoni, A proposito di Fellini: le radici riminesi.


Harry Potter e il Principe Mezzosangue: il Musatti’s Eye.

Sono in fila al botteghino per il sesto episodio di Harry Potter. Gli adulti sono mosche bianche, anche più appariscenti dei propri ciuffi e crini canuti immersi nella varietà multicolor dell’intera fila. Qualche matusa ha portato i figli: traspare così un entusiasmo per la prima proiezione, ore 16 sul fuso orario subtropicale di Foggia (uno in più di Howgarths), più paterno che filiale. Di fatti l'anteprima è un concetto da anni 80, quando vedere prima era prioritario sul vedermeglio. Nowadays in piena rip-culture, con maxischermo portabili anche in campeggio e connessi al mondocon la chiavetta usb per lo streaming - perché - un (fisicamente) adolescente dovrebbe affannarsi in primo pomeriggio con 34 gradi all'ombra per la fila al botteghino? Cerco una risposta sui visi intorno. La trama, oltretutto è nota, arcinota, stranota. A far compagnia a quest’adolescente di oltre 100 chili che scrive ci sono i ragazzi di maria, del fratellone e anche, bello e importante, cittadini europei stabilmente e presumiamo “legalmente” residenti in Italia. Carrozzino compreso di fratellino "a branca impresa". Ricordo ancora la serata in cui vidi al cinema Dune, seimila lire, e immagino come potranno essere i ricordi del ragazzino fra 10 anni a rievocare l'Italia insieme alla bacchetta di Harry. Quando i miracoli non accadono, rimane solo la fata turchina o Albus Silente, poco importa (menomale) che farà outing nella prossima anteprima fra un anno. 

Harry Potter e il principe mezzosangue", i sette Horcrux ~ Spettacolo  Periodico DailyPenso alla trama del libro rinfrescata grazie alla buon vecchia wikipedia: è l'episodio in cui il male acquista una matrice d'origine riconoscibile, dall'essere overspread e sommessamente ovunque viene ricondotto ad una linea storica, con un passato, presente e futuro(ergo identificato e storicizzato). Probabilmente è il più interessante della serie, l'apice. Non è lo scontro finale bensì la negazione del proprio se negativo e l’inizio della collaborazione (ma non cooptazione) del vecchio col nuovo (uomo-maghetto). L’omicidio viene descritto come una frammentazione dell’anima e il senso di colpa dell’esser vivi come diretta conseguenza di ciò attanaglia il protagonista: il bene conseguenza del male. Mi dico che forse vale la pena vederlo sto’ film, anche per apprezzare come verranno svolti i nodi narrativi. Pago, senza sconto giornalisti, questa volta non è concesso edentro nella sala più grande delmultisala.I rumors cominciano subito, pop corn e ritardatari movimentano i promo. 


Comincia il film, ovazione di metà sala e poi, poi...più nulla. Cioè la pellicola scorre, lo schermo si anima, ma la sala si spegne dopo i primi venti minuti. Una sciatteria. I bisbigli e i commenti live dei vicini di posto aumentano, intenti a spiegare al genitore accompagnatore quanto accaduto nei precedenti film, e il genitore ancor più acutamente ed educatamente intento a voler capire subito. Se nei primi minuti erano un fastidio, dopo la prima mezz’ora diventano un toccasana e il vero intrattenimento “in sala”. La ragazzina a sinistra ha la sua versione dei fatti, mentre il nerd in erba a destra è un chiaro sostenitore del clan cattivo. Il tutto mentre maggiorenni ben identificabili da un tono di voce testosteronico sciorinano una conoscenza da scriba non solo della storia, entusiasmante sullo schermo quanto una miccetta per soldatini di piombo, ma dell’ambiente, dei luoghi e di tutto il background, costruito dalla scrittrice o dai forum in rete. Una tale passione, mi dico, andava coinvolta, non anestetizzata dai quattro movimenti di camera in piano americano su attori verosimilmente reduci da una puntata fiume del Maurizio Costanzo Show mattina. 

Review: Harry Potter e il Principe Mezzosangue | DDay.itSesso, no grazie (in fondo sono maghetti inglesi, al contrario dei coetanei babbani che negli ultimi anni hanno avuto un aumento delle malattie sessualmente trasmesse del 400%). Anche il bacio, dopo un’ora abbondante di proiezione, fra Harry e la sua futura compagna di una vita viene accolto con indifferenza dalla platea (e anche la scena primordiale è bruciata). Sensualità, magari sublimata nei volteggi delle scope volanti, nisba. Che delusione per i ragazzi coetanei del trio, cresciuti anno dopo anno col mondo parallelo in cui esistono anche i mezzi binari, le mezze misure, le diverse gradazioni di bontà o malvagità...e tutto quello che gli si riesce a proporre sono due ore e mezza di una versione sofisticata del maggior successo di Franco Califano...

Concludendo: il film va visto, per un ripasso di psicologia sociale. Mi viene da pensare ad un esperimento fatto da Cesare Musatti, uno dei primi psichiatri al mondo ad occuparsi di cinema e psiche: guardare i volti dei ragazzi mentre assistevano a Biancaneve della Disney. Musatti scoprì che l’identificazione proiettiva non seguiva necessariamente la morale della storia, anzi riferì d’aver osservato anche tratti di compiaciuto sadismo. Harry

Potter va visto con il Musatti’s Eye, non c’è dubbio. Naturalmente il regista è statoconfermato per girare il prossimo e conclusivo film doppio: Harry Potter e i doni della morte. Omen nomen, sartriana però. 

Luigi Starace

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