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Risultati immagini per le quattro casalinghe di tokyo personaggiLe quattro casalinghe di Tokyo. Note noir, delitti efferati, amori grotteschi, lenzuola tinte di cupe volte notturne e luci al neon riflesse su uno scenario suburbano decadente, di questi essenziali elementi si compone il romanzo, pubblicato in Italia da Neri Pozza nel 2003, il cui titolo originale è Out, scritto da Natsuo Kirino, autrice giapponese, classe 1951.

 In questo romanzo giallo di 700 pagine sono raccolti, sotto lo stesso accogliente tetto, i versanti più oscuri dell'animo umano, partoriti dalle vischiose spire della frustrazione, del risentimento, dell'incomunicabilità e dell'afferimento a ceti e ruoli sociali rigidi e costrittivi, che vedono come ultima e unica via di liberazione il delitto, l'aberrazione e il lavoro notturno.
 In un Giappone contemporaneo, dalla struttura ferrea, quattro donne decidono di acquisire un pezzo della propria libertà economica lavorando come operaie in una fabbrica di pietanze pronte al consumo.

 In quest'ambiente, intriso di vapori caldi del cibo cotto frammisti a sanitizzante industriale, Masako, Yayoi, Kuniko e Yoshie, intrecciano parte delle proprie esistenze, immergendosi, notte dopo notte, in un oceano nero di crimini meticolosamente premeditati e tracciando i propri passi con scie di sangue, difficilmente estinguibili. Altri personaggi enigmatici si avvicendano nell'evolversi incalzante del racconto, i quali minano ulteriormente il concetto di integrità morale e umana, in contrasto con la mistificazione della società modello nipponica, descritta dalle virtù della precisione e dell'esattezza, ma macchiata, di contro, dalla violenza impressa da strutture e sovrastrutture culturali nell'individuo-automa.

 Lo stile fluido, scorrevole rende il complesso narrativo avvincente e la tensione, tipica dei thriller, tiene il lettore col fiato sospeso sino all'ultima pagina.

Una chicca imperdibile per gli amanti del genere, non adatto ai deboli di stomaco.

Recensione di 𝕸𝖆𝖗𝖙𝖎 𝖓𝖆 per Cafe sur la Lune ( https://t.me/joinchat/DO6Q8RD4RWMYuEK6dAz3Ug)


APPROFONDIMENTO SULLA  AUTRICE 


https://it.wikipedia.org/wiki/Natsuo_Kirino

https://www.corriere.it/moda/news/17_giugno_15/natsuo-kirino-con-nome-uomo-scrivo-storie-nere-cosi-avverto-donne-giappone-ci-tradisce-8e4c24c2-51e5-11e7-bf53-660c452c585b.shtml





Stagione di Prosa a Manfredonia: avvio intenso e civile con L’estranea di casa

La stagione di prosa è cominciata con un ottimo afflusso di pubblico e un testo denso, impegnato e scuotente le coscienze: il mondo (in)visibile per noi italiani delle badanti dell’Est Europa. L’estranea di casa non fa sconti: messa in scena minima, luci essenziali e forte presenza scenica della protagonista. Non c’è molto da produrre come pensiero, serve solo ascoltare ed entrare nella vita da quella sociale a quella interna dell’animo di Luminiţia, insegnante rumena che riceverà una dolorosa lezione dalla vita. Le due famiglie, quella propria e quella dell’assistita, vengono sottoposte a forze centrifughe e i rapporti fra i vari membri si trasformano da resilienti in entropici.

Allo spettatore spetta decidere se condividere lo status migratorio ed emotivamente migrante della neo badante dell’anziana signora Chella oppure scegliere di non vedere, di giustificare le istanze di una madre con un pragmatismo italo-centrato. L’estranea di casa riesce a smuovere, è incisiva. Racconta l’oggi postmoderno e andrebbe proposto nelle scuole, per far maturare una visione più ampia della realtà sociale, non limitata alla geografia virtuale dei confini nazionali (che non esistono più).

L’Italia ha avuto milioni di migranti eppure si parla di “sindrome italiana” per le badanti che vi vengono a lavorare: le badanti spesso quando tornano in patria e cadono in depressione. Il lavoro del caregiver è di per sé logorante e bisognoso di pause e momenti di scarico emotivi; se si aggiunge lo stress delle condizioni spesso terminali degli assistiti il peso aumenta. E questo sarebbe il lavoro, poi le difficoltà di essere stranieri in terra che non fa sentire più cosi accolti gli stranieri, anche se vengono a lavare non solo i nostri ammalati ma spesso anche la nostra coscienza collettiva.


“La Signora conta le malattie e io i suoi anni. Lei trattiene la mia giovinezza, io cullo la sua vecchiaia.”
Tetyana Kochetygova, badante e poetessa dal libro Il Paese delle badanti, Francesco Vietti


L’estranea di casa con Raffaella Giancipoli, video animazioni Beatrice Mazzone, spazio scenico Bruno Soriato, disegno luci Tea Primiterra, assistente alla regia Annabella Tedone, consulenza linguistica Nina Balan, regia e drammaturgia Raffaella Giancipoli.

E’ uno spettacolo di Kuziba, produzione Compagnia Bottega degli Apocrifi con il sostegno di Sillumina.



Recensione per Cinemadonia.it a cura di Carmen Palma  
Le Guerre Stellari tornano al cinema: dopo tanta attesa è finalmente nelle sale Star Wars: The Last Jedi, l’ottavo episodio della celebre saga ideata da George Lucas, il terzo dalla acquisizione della Lucasfilm da parte della Walt Disney Company. La pellicola, diretta da Rian Johnson, è già un successo al botteghino e ha già causato accesi dibattiti tra i fan più accaniti. The Last Jedi è un buon film? Cosa ha funzionato e cosa no?

The Last Jedi fa da seguito a un Episodio VII (Il Risveglio della Forza) che ha diviso molto il pubblico. Il film, diretto da J.J.Abrams, era un prodotto confezionato da un fan devoto, perciò era inevitabile fosse pregno di nostalgia, un regalo, insomma, per tutti i seguaci che dopo tanti anni hanno potuto assistere alle nuove avventure intergalattiche, emulando però eccessivamente la trilogia originale. Scadendo troppo spesso nel citazionismo spinto, il film è sì godibile, ma sicuramente poco audace. La Walt Disney Company poteva esser certa della buona riuscita del film al botteghino, data la grande fanbase, ma ha preferito volare basso, dando agli appassionati qualcosa per cui sorridere e una trama che, nelle dinamiche, ricorda fin troppo le avventure di Luke Skywalker, Leia Organa, Han Solo e Darth Fener.
Il nuovo episodio, invece, riesce a staccarsi maggiormente (ma non del tutto) dalla trilogia degli anni Settanta, a partire dalla regia e dal montaggio.


 Episodio VIII ha una nuova identità cinematografica, più moderna e che non guarda mai al passato, abbinata alla superba fotografia di Steve Yedlin. Una regia di ispirazione nipponica, a giudicare da alcune inquadrature e scelte cromatiche , che rispecchia chiaramente l’idea (malinconica) alla base del film: la fine dei Jedi.

La caratterizzazione dei personaggi, ben presentati in tutte le loro sfaccettature, ricordano in alcuni punti i personaggi originali, ma senza cadere nell’imitazione e soprattutto senza influenzare allo stesso modo la dinamica della storia, ricca di colpi di scena. A cominciare dal suo villain, Kylo Ren: senz’altro un personaggio molto approfondito, che eredita alcune delle peculiarità di Anakin Skywalker (come il suo dissidio interiore tra bene e male), ma che riesce a slegarsene attraverso una scena chiave piuttosto esplicita: il figlio di Han Solo e Leia Organa si disfa della sua maschera, quella che tanto ricorda l’iconica immagine di Darth Fener e che lo stesso Leader Supremo Snoke induce a sbarazzarsene. Non vi è simbologia più forte di questa per rappresentare la diversità tra i due.
Kylo acquisisce,finalmente, una sua vera individualità, grazie alla quale lo spettatore non sente più la mancanza del suo predecessore.
Uno dei maggiori punti di distacco dai precedenti film è l’introduzione di una nuova storyline: quella di Finn e Poe. La trama di questi due personaggi non funziona completamente, le loro avventure non convincono del tutto e non lasciano il segno, ma è frutto di uno sforzo da parte del regista di cambiare completamente rotta dai precedenti film, uno sforzo che va comunque apprezzato. Tra questi due personaggi si inserisce la linea comica che tanto sta facendo discutere: no, di certo non è stata gestita nei migliori dei modi, ma di certo è eccessivo arrecare ad essa il fallimento della pellicola, come molti puristi sparsi per il mondo tendono a fare. Vi sono momenti ironici anche lì dove questi risultano sopra le righe, eccessivo e inutili, di certo la loro mancanza non avrebbe reso il film meno godibile, data la grande presenza di scontri e combattimenti.

C’è una cosa, tuttavia, che rende questo film diverso dagli altri e lo rende apprezzabile. Non solo per i fantastici effetti speciali e il montaggio sonoro che rendono la visione al cinema un’esperienza unica, ma soprattutto perché questo è probabilmente lo Star Wars più “spirituale” di sempre: la forza è al centro di tutto, è protagonista indiscussa, è la causa che muove Rey, Kylo e Luke, i fili della trama sono affidati tutti nelle sue mani. Continua a imperare come unica legge universale anche lì dove i Jedi e la speranza vengono meno.
Tutti gli appassionati di Star Wars ricorderanno la passione con cui maestro Yoda spiegava a Luke e ai suoi allievi l’essenza della Forza, ed è ciò che fa anche Skywalker con la nuova protagonista della saga, eppure non in maniera ugualmente travolgente: le parole e le azioni dell’ultimo Jedi non sono efficaci come lo erano quelle di Yoda, ma danno almeno un’idea generale di cosa questa rappresenti per un guerriero. Un’idea che poteva essere approfondita in due modi: allungando la durata del film, sfiorando così le tre ore, oppure sottraendo la parentesi di Finn e Poe a Canto Bight che, tutto sommato, pur essendo una bella sequenza di azione non lascia totalmente il segno. Soluzioni che, tuttavia, si sarebbero rivelate ugualmente dannose: un film troppo lungo non avrebbe accontentato tutti e avrebbe corso il rischio di diventare noioso, così come non inserire un universo nuovo come quello di Canto Bight avrebbe arrecato grosse critiche a Rian Johnson. Il regista aveva un grosso peso sulla spalle, ossia quello di creare un taglio netto con la saga passata, cosa che J.J.Abrams non è stato in grado di fare: in The Last Jedi l’inserimento di un mondo totalmente nuovo, quello luccicante del gioco d’azzardo dove si nasconde un mondo fatto di soprusi, aiuta Johnson a compiere quel passo in avanti che Abrams non fece. Ed anche a Canto Bight è dato spazio all’interiorità, a quel dualismo buio/luce che resta da sempre un tema molto caro alla saga. Proprio come succede nell’isola dove Luke Skywalker si è rifugiato: sono spazi conflittuali, ambivalenti, entrambi ben rappresentati visivamente e concettualmente. I protagonisti “scendono”( letteralmente) in luoghi che rappresentano l’oscurità e, per metafora, il male. In particolare, la cava dell’isola dove discende Rey ha un aspetto più macabro e introspettivo, la scelta di rappresentare i suoi demoni interiori e i fantasmi del passato attraverso lo stratagemma dello specchio risulta accattivante, pur essendo un classico del cinema.

È un film che si ama o si odia, ma di certo non lascia indifferenti. Johnson ha avuto più audacia di Abrams,ma è andato sul sicuro con la distribuzione equa di scene d’azione e di riflessione, le quali hanno una carica emotiva tale da non risultare mai banali o noiose. Tengono sulle spine esattamente come se si trattasse di un attacco del Primo Ordine alle forze ribelli. Una tensione che rende, di fatto, L’Ultimo Jedi superiore a Il Risveglio della Forza.
Carmen Palma


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1968, Dagenham, Essex. La fabbrica della Ford dà lavoro a 55mila operai e a 187 donne, addette alla cucitura dei sedili per auto in un'ala fatiscente, dove si muore di caldo e piove dentro. In seguito ad una ridefinizione professionale ingiusta e umiliante, che le vorrebbe "non qualificate", le operaie danno vita con uno sciopero ad oltranza alla paralisi dell'industria e alla prima grande rivendicazione che porterà alla legge sulla parità di retribuzione.


Cinema dei diritti
"Siamo donne, non potete farci domande cosi banali!"

Gli uomini escono con le ossa rotte dalla visione della commedia british che di vintage ha l'ambientazione e i costumi, ma non le istanze di un uguaglianza che fatica ancor oggi a compiersi, basti pensare ai diritti per la gravidanza che partono dalla "tolleranza" del privato verso la maternità delle assunte. Sono ancora vive le testimonianze della giornata contro la violenza sulle donne.




Il film con leggerezza stempera il conflitto fra i sessi a partire dall'ambiguità del titolo, che sintetizza bene il non detto dell'universo maschile in risposta alle richieste di parità.








In un futuro lontano l'uomo sapiens ha determinato il suo futuro e creato una nuova subspecie potenziata, geneticamente migliorata e potenzialmente più evoluta. Sembra il sogno transhuman odierno, invece è il cardine del romanzo Il viaggio dello Star Wolf di David Gerrold edito per la prima volta nel 1990. Millecinquecento anni di evoluzione per i "Morethan" ossia i more than human, gli oltre umani, o ultra umani per citare una delle tante serie degli X-Men dei primi anni 2000.

La specie dei Morethan, altezza media quasi 3 metri, ha scelto di amplificare dei tratti genetici fisici molto alfa per cui alcuni di loro possono stare nello spazio senza respirare per minuti, alcuni di loro hanno optato per qualcosa di simile a delle zanne (anche in varietà tiger tipo tigre dai denti a sciabola). L'assetto societario gerarchico ricorda molto quello dei Klingon mentre la morale è sovrapponibile a quella del profitto dei Ferengi. Inoltre applicano Sun Tzu e l'arte della guerra meglio degli umani. Sono asessuati, quindi non disperdono energie in corteggiamenti e rituali di accoppiamento e vengono concepiti in incubatrici dopo selezione genetica. Incarnano il sogno o incubo, a seconda delle prospettive, oggetto già oggi di discussione fra i futurologi. Il romanzo che viene identificato nel sottogenere di fantascienza tecnologica offre diversi spunti di riflessione sull'eugenetica applicata all'efficienza, cosi come illustra bene la psicologia del piccolo gruppo di umani costretti ad essere molto resilienti per sopravvivere.

La trama in breve: L’astronave LS-1187 è un incrociatore interstellare che non ha mai partecipato a una vera e propria battaglia. La sua prima missione (unirsi a un convoglio di mille navi per proteggere i mondi esterni da attacchi a sorpresa) finisce quasi in un disastro e l’astronave e il suo equipaggio si guadagnano una serie di nomignoli tutt’altro che simpatici, di cui “vigliacchi” è il solo ripetibile. Ma tutti, a bordo dell’incrociatore LS-1187, sono ansiosi di lavare la macchia, e per farlo non c’è che un modo: distinguersi in azione contro la Lega dei Morthan, la più pericolosa alleanza extraterrestre che i mondi dell’uomo abbiano dovuto affrontare.
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David Gerrold, nato nel 1944, è l’autore della notissima serie degli Chtorr: La guerra contro gli Chtorr (A Matter for Men, 1983; Urania n. 1194); Il ritorno degli Chtorr (A Day for Damnation, 1984; n. 1218); Il giorno della vendetta (A Rage for Revenge, 1987; nn. 1244-1245) e L’anno del massacro (A Season for Slaughter, 1991; Urania Argento n. 7). The Voyage of the Star Wolf è un romanzo del 1990.

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